Categorie
Racconti brevi

L’assalto degli Oru

Seduto comodamente ad occhi chiusi sul divano di casa sua, Patrick inspirò ed espirò profondamente, lasciando scivolare via lo stress accumulato durante la giornata. Intorno a lui c’era il buio, creato artificialmente dalla chiusura delle tapparelle e dall’assenza di altre persone in casa che avessero bisogno delle luci accese.
L’unico suono proveniva dal suo smartphone, che riproduceva rumori bianchi tramite un’applicazione.
Ripeté di nuovo l’operazione: inspirare; espirare; inspirare; espirare.
Sentì il corpo completamente rilassato, e la mente del tutto sgombra da pensieri.
Era il momento di riaprire gli occhi.

Nebbia.
Strano, era certo che sarebbe comparso in un’ampia vallata, ventilata e priva di corsi d’acqua.
All’improvviso, capì. Maledetto olfatto! Quello era l’unico senso che il suo cervello non riusciva ad elaborare in quel luogo senza dove.
Non era infatti nebbia, ma fumo: il villaggio stava andando a fuoco!

Corse a perdifiato nella direzione che gli sembrava corretta, pur non vedendo praticamente nulla.

Ad un certo punto, il terreno si inclinò rapidamente ad indicare la presenza di una collina: doveva essere il luogo su cui gli abitanti avevano eretto una torre di guardia. Data la situazione, Patrick si sarebbe aspettato di sentire voci concitate giungere da lì verso il villaggio, invece nulla. Evidentemente, l’incendio doveva essere iniziato parecchio tempo prima.

Era arrivato tardi.

Risalì il colle, trovandosi poco per volta al di sopra del fitto del fumo. Voltandosi in direzione del villaggio, tuttavia, non riusciva a vedere ancora nulla.

Di fronte a lui si stagliava la torre. Non era altissima, tuttavia era più che sufficiente per tenere d’occhio le due vallate gemelle e prevenire in tal modo l’arrivo di possibili forze ostili.

Patrick varcò la porta, lasciata spalancata. Era un chiaro segno del fatto che la coppia di guardie aveva lasciato frettolosamente quel luogo. Un dettaglio che certamente non lo stupì.

Si arrampicò lungo gli stretti scalini, fino a giungere di nuovo all’aria aperta. Anche da lassù, il villaggio era coperto dalla coltre di fumo. Riusciva ad intuire il profilo di alcuni edifici in pietra, ma non gli fu possibile capire se ci fossero delle persone indaffarate a cercare di spegnere l’incendio. Non avendo un fiume a disposizione, ma solo un pozzo e peraltro piuttosto profondo, gli sventurati abitanti avrebbero in ogni caso avuto enormi difficoltà a contenere un disastro di quelle proporzioni.

Se non erano lì, dove si trovavano ora i paesani? Patrick non poteva accettare l’idea che nessuno di loro fosse sopravvissuto al tragico evento.

Voltandosi in direzione della vallata gemella per scorgere l’origine dell’accaduto, vide invece in lontananza e con sorpresa la popolazione che stava cercando. Erano evidentemente in fuga verso luoghi più sicuri, avendo dovuto accettare a malincuore che per il villaggio non c’era più speranza.

Patrick urlò con quanto fiato aveva in gola per richiamare la loro attenzione, tuttavia erano troppo lontani ed il vento spirava in direzione sfavorevole. Considerato il passo reso lento dalla malinconia e dal peso della sconfitta, l’uomo capì che in una decina di minuti di corsa li avrebbe raggiunti. Scese pertanto senza esitazione i gradini e prese a correre nella loro direzione.

Giunse alle retrovie della carovana nel tempo atteso, piegandosi sulle ginocchia per recuperare dallo sforzo.

Il gruppo si era accorto di lui, ma nessuno aveva voglia di accoglierlo con il consueto entusiasmo.

L’unica persona che si rivolse esplicitamente a lui fu Klothy. Nelle parole della ragazza, la rabbia aveva preso il posto dell’affetto che caratterizzava il loro rapporto: «Sei arrivato troppo tardi! Dov’eri, quando più avevamo bisogno di te?»

La giovane scoppiò in lacrime, confortata dalla madre con un abbraccio più doveroso che arricchito dal necessario affetto. Anche la donna osservò Patrick con evidente rancore, quasi che l’uomo avesse colpa per quanto era accaduto, e di cui lui ancora non sapeva pressoché nulla.

Quel sentimento nei suoi confronti nasceva dalla scelta dell’uomo di non fermarsi mai a lungo nella terra di Kindra. Lui aveva cercato di spiegarne la ragione, ossia il fatto di poter restare laggiù solo durante uno stato di trance raggiunto durante la meditazione: se qualcuno fosse entrato in casa sua e lo avesse risvegliato bruscamente, avrebbe corso il rischio di rimanere intrappolato fra le due dimensioni. Peggio, sarebbe potuto entrare in un coma irreversibile.

In quel momento, una spiegazione così chiara e condivisibile non poteva essere accettata da chi aveva appena perso tutto, e grazie al suo aiuto avrebbe potuto difendersi dalla minaccia. Ma quale?

«Volete dirmi cosa è successo?»

Solo le due donne restarono con lui. Il resto degli abitanti continuò a camminare, voltando verso di lui solo la coda di un occhio con distaccato disprezzo.

La voce di Klothy giunse a lui appena udibile: «Sono stati gli Oru.»

Ancora loro. Quel maledetto popolo di razziatori a cavallo.

Erano nemici giurati di tutte le genti che cercavano stabilità e progresso, perché non concepivano una vita rinchiusa in una dimora che non fosse rappresentata dal cielo aperto.

Quella spiegazione non era tuttavia sufficiente. La torre di guardia avrebbe dovuto prevenire un attacco, e sotto la guida di Patrick erano state costruite solide mura: «Le difese non hanno funzionato?»

«Sembra che qualcuno all’interno del villaggio abbia aperto le porte.»

«Viandanti insospettabili.»

«No, sai bene che qualsiasi straniero non passa inosservato, e non c’era nessuno di estraneo in paese al momento dell’attacco.»

«Quindi, qualcuno è stato corrotto. Immagino che cammini ancora fra di voi.»

«Se questo è davvero ciò che è accaduto, sì: il traditore è fra di noi.»

Patrick ebbe un’idea: «Il sole sta iniziando a calare. Non appena la popolazione si coricherà per la notte, troveremo l’infiltrato.»

La carovana proseguì la marcia fino a raggiungere un fiume ai piedi di una collina. Sembrava una posizione perfetta per rifocillarsi e sostare in posizione sufficientemente sopraelevata da consentire di scorgere nuove minacce. Quella terra era infatti poco conosciuta a tutti loro, perciò erano ignari dei pericoli che stavano correndo in quei momenti.

Nessuno volle scambiare storie intorno al fuoco. Troppo basso era il morale, così come la voglia di rubare all’uomo che giungeva da un altro mondo qualche nuova e prodigiosa conoscenza.

Quest’ultimo finse di dormire come tutti gli altri. In verità, prima di stendersi osservò la posizione degli uomini di guardia e del popolo che cercava di trovare nel sonno una tregua dalla frustrazione.

Capì in fretta a chi doveva attribuire la colpa per l’accaduto: sembravano essere due persone, un ragazzo ed un uomo di mezz’età. Non era strano che, se ricordava correttamente, si trattasse di padre e figlio. Evidentemente, uno dei due era stato contattato e corrotto, quindi aveva parlato con il parente perché si dividessero il compito e spalancassero al momento giusto le due porte cittadine.

Circa due ore più tardi, nel silenzio generale sentì una guarda parlare sottovoce con uno tra costoro, probabilmente il più giovane. Capì che quest’ultimo si stava allontanando con la scusa di una necessità fisiologica. Astuto: pochi minuti più tardi ci sarebbe stato il cambio della guardia, così si sarebbero allontanati entrambi senza dare nell’occhio alle stesse persone.

Così accadde.

Patrick si alzò poco dopo il genitore, avvicinandosi alla guardia che lo aveva lasciato andare.

«Dove vai? Anche tu di vescica debole?»

«No, e non lo sono nemmeno loro.»

«Loro chi?»

«L’uomo che se n’è appena andato ed il figlio che ha lasciato l’accampamento prima del cambio della guardia.»

«Cosa stai dicendo? Pensi che siano stati loro…»

«Non lo penso, ne sono certo. Vedi quel luccichio? E’ la lama del coltello che il padre tiene alla cinta.»

Le guardie corsero all’inseguimento. Patrick non andò con loro, preferendo sostituirsi alla guardia, tuttavia alcuni uomini avevano sentito tutto e si unirono alla caccia.

Circa mezz’ora più tardi, i fuggitivi vennero ricondotti di fronte ad una piccola folla furiosa e che pretendeva una spiegazione, anche se non l’avrebbe mai accettata.

«Ci hanno offerto oro. Tanto oro, quanto non ne abbiamo mai visto prima. Non possiamo pretendere il vostro perdono, ma negli ultimi tempi eravamo in grossa difficoltà, spesso non avevamo cibo da mettere in tavola.»

L’uomo proruppe in un pianto disperato. Aveva venduto il suo villaggio in cambio di una piccola fortuna, ma anche di una vita da raminghi per lui e per suo figlio.

Il popolo senza patria sovrastò il suo lamento con insulti e minacce.

Patrick cercò di calmarli: «Questi uomini hanno sbagliato, non c’è dubbio. Ma in questo momento la priorità e trovare dei mezzi di sostentamento e per costruire un nuovo luogo in cui vivere, sicuro e prospero.»

«E come dovremmo fare? Non abbiamo più nulla!»

«Ci aiuteranno loro.»

Le espressioni perplesse dei presenti non si smorzarono di fronte al sorriso furbo dell’uomo giunto da un altro mondo.

Padre e figlio raggiunsero i nomadi Oru dopo due giorni di cammino. Le tracce degli zoccoli erano evidenti lungo i prati, ma i cavalli correvano per buona parte della giornata, perciò era stato impegnativo colmare la distanza.

«Ecco qui i nostri infiltrati! Bravi, avete fatto un ottimo lavoro. Tenete quanto pattuito.»

Il padre raccolse il sacchetto colmo di monete sonanti, che tuttavia non rispecchiava quanto si sarebbe atteso: «Penso che ci sia un errore, sarà al massimo la metà dell’oro concordato.»

«Vero, perché la cifra non era a testa, ma per tutti e due. Non siete forse padre e figlio?»

L’uomo capì che non aveva senso discutere con quella gente, avrebbero potuto legarlo ad un cavallo lanciato in corsa in qualsiasi momento.

Riprese pertanto la parola: «D’accordo, mi sembra giusto. Vi chiedo solo di accettare questo piccolo dono come ringraziamento per l’opportunità che ci avete offerto, in un momento in cui la nostra famiglia era in difficoltà.»

Il capo Oru e le sue guardie del corpo accolsero quel sacchetto di carta con sospetto ma anche curiosità. Non avevano mai visto quel materiale, né tantomeno quanto conteneva.

«Cosa sarebbero?»

«Funghi, ma di ottima qualità. Vengono da un bosco vicino al nostro vecchio villaggio, e sono molto famosi nella nostra zona, ma credo che non vi sia mai capitato di provarli. Sono da mangiare così come li vedete.»

Una guardia squadrò il padre con perplessità: «Non starai cercando di avvelenarci, spero!»

«Io? E perché mai, chiunque di voi dovesse sopravvivere, ci cercherebbe anche in capo al mondo. Ma se vi fa sentire più sicuri, ne assaggeremo prima uno a testa io e mio figlio.»

Così fecero, cercando di celare la mano tremante in attesa degli effetti descritti da Patrick.

Le conseguenze dell’ingestione di funghi allucinogeni era stata descritte da quest’ultimo come non letale, ma sufficiente a mettere fuori combattimento l’intero ed impreparato campo dei nomadi Oru per diversi minuti, se non addirittura qualche ora.

L’uomo era riuscito a portare con se quei funghi come qualsiasi prodotto naturale che desiderava condurre dal suo mondo, mentre il trasferimento di oggetti artificiali sconosciuti in quella realtà non gli era possibile. Aveva avuto quella idea perché detestava ciò che gli Oru avevano fatto, ma non poteva accettare di muovere in qualche modo guerra e vedere altre persone perdere inutilmente la vita. Il tempo non gli era certo mancato, grazie alla lunga rincorsa durata ben due giorni.

Dopo pochi minuti, padre, figlio e l’intero accampamento Oru erano in preda agli effetti delle allucinazioni. Fu così che gli abitanti senza più villaggio riuscirono a rubare loro tutti i cavalli, fuggendo poi rapidamente e portando con loro i due traditori ancora sotto l’effetto delle droghe naturali.

Dopo alcune ore di cavalcata, raggiunsero il grande mercato equino di Silkvale. Qui vendettero la gran parte degli animali, ottenendo in cambio denaro sufficiente a consentire loro di pensare con un minimo di ottimismo al futuro.

Nei giorni successivi, venne individuato un punto sopraelevato ed abbastanza ampio da poter ospitare un nuovo villaggio con delle mura. Un ampio bosco nelle vicinanze e due corsi d’acqua rendevano quel luogo così adatto che si stupirono che non fosse stato abitato in precedenza, ma d’altra parte quella regione era prevalentemente popolata da tribù nomadi.

Lavorarono alacremente per settimane e settimane, fortunatamente senza nuovi attacchi. Gli Oru erano allo sbando: voci giungevano dai territori circostanti per raccontare quanto quel popolo si fosse separato in clan che continuavano a darsi battaglia per una miserevole supremazia. Il racconto di come la gente di Patrick li avesse lasciati con le terga al suolo aveva fatto il giro della regione, perciò tutti li temevano e guardavano con rispetto il nuovo insediamento.

Alla fine, prima che un nuovo inverno arrivasse e li trovasse senza un riparo, il villaggio era rinato. Era molto più grande, sicuro e dominava una prospera vallata, che gli abitanti avevano già iniziato a coltivare sotto le indicazioni dell’uomo giunto da un altro mondo.

Al quale, è giusto dirlo, faceva sempre più raramente ritorno. Aveva capito che il suo posto era laggiù, accanto a quella gente che pendeva dalle sue labbra e ad una ragazza che gli stava rubando sempre più il cuore.

Categorie
Racconti brevi

Squitty Sesamo

È la sesta vigilia di Natale per Gabry e Miki. Hanno entrambi cinque anni, anche se i loro compleanni sono separati da quattro mesi.

Stanno trascorrendo insieme le festività, perché la famiglia si è riunita a casa dei genitori di Miki in un paese delle Prealpi Lombarde per vivere un po’ più intensamente l’atmosfera magica del Natale.

I bambini sono eccitatissimi al pensiero dei regali che riceveranno la mattina successiva. Per questo motivo faticano a prendere sonno.

«Miki, cosa hai chiesto a Babbo Natale?»

Il piccolo padrone di casa è più vicino a cedere al sonno, perciò sbadiglia apertamente prima di rispondere: «Un trattore telecomandato. E tu?»

«Un drone!»

Miki commenta con gli occhi già chiusi: «Che cos’è un drone?»

«È una specie di elicottero, ma con la telecamera. Così posso mandarlo in giro per le strade e vedere cosa fanno le persone, e scoprire se qualche grande sta facendo il cattivo. Forte, vero?»

Gabry non riceve nessuna risposta, perché il respiro di suo cugino è quello profondo tipico di chi sta già dormendo.

L’unico bambino rimasto sveglio nella stanza si preoccupa. È infatti fin troppo eccitato per l’arrivo dei regali, inoltre dormire in un letto non suo lo ha sempre messo in difficoltà, perciò fatica a prendere sonno: e se per colpa sua Babbo Natale decidesse di saltare quella casa? Come spiegherebbe a suo cugino ed a tutta la famiglia che è sua la responsabilità del triste vuoto sotto l’albero?

Pensa per qualche istante se sia il caso di andare ad avvisare i suoi genitori, ma teme che possa essere già troppo tardi. Alzarsi in quel momento potrebbe avere conseguenze terribili per il Natale di tutti.

Mentre queste preoccupazioni lo tormentano, un flebile rumore di passi giunge da un piccolo buco dietro ad un armadio, di cui nessun essere umano si è mai reso conto. D’altronde, quel mobile non viene spostato da circa cinquant’anni.

L’anta dell’armadio si apre leggermente dall’interno, richiudendosi senza cigolii un attimo più tardi.

Una vocina delicata e leggermente nasale fa sobbalzare il bambino più agitato della Lombardia: «Ehi, tu: come ti chiami?»

Gabry si volta verso l’origine di quelle parole, anche se il buio gli impedisce di scorgerne la fonte.

Si sforza di chiedere: «Chi sei?»

È spaventato, perché chiaramente non si tratta di nessuno tra gli adulti che in quel momento sono nelle altre stanze della casa. Nessuno gli chiederebbe il suo nome, né parlerebbe con quella assurda voce.

Un topolino si avvicina alla luce di cortesia, posta sul comodino di Miki che continua a dormire. Il timbro del nuovo arrivato si fa un po’ più nasale a causa dell’agitazione.

«Non si risponde ad una domanda diretta con un’altra domanda! I tuoi genitori non ti hanno insegnato l’educazione?»

Gabry scoppia in una risata, anche se trattenuta per non svegliare nessuno, e soprattutto per non allarmare Babbo Natale qualora fosse in arrivo.

«Mi chiamo Gabriele. Ma tu chi sei?»

Il topino annuisce soddisfatto: «Così va meglio. Io mi chiamo Squitty. Squitty Sesamo, per la precisione, perché in effetti è un nome fin troppo comune. Pensa che ho venticinque fratelli che si chiamano come me.»

Il bambino pensa per un istante al fatto che non ha mai sentito nessuno chiamarsi così, né si ricorda di libri sui topi letti dalla sua mamma che riportino quel nome. Molto strano.

Il nuovo arrivato mostra una certa fretta: «Forza, alzati e mettiti addosso una felpa e delle calze antiscivolo, dobbiamo andare.»

Il tono imperativo mette Gabry a disagio. È ora di svegliare suo cugino perché venga a conoscenza di ciò che sta avvenendo nella sua stanza.

«Miki! Ehi, Miki, guarda chi è venuto a trovarci!»

Squitty Sesamo cammina distrattamente verso Gabry, finendo per calpestare con i suoi piedini proprio il cuginetto.

«Chi sarebbe questo Miki?»

L’unico bambino sveglio risponde ridendo: «Ma è sotto di te, gli stai camminando sopra!»

«Per mille semi di sesamo! Giuro che non me n’ero accorto. Sì, può esserci utile anche lui. Più siamo e meglio è. Ehi, giovane, sveglia! È ora di andare. Giovane? Senti un po’, come hai detto che si chiama?»

« Miki, Michelangelo è il suo nome per intero.»

«Se avesse già i baffetti glieli tirerei, ma come devo fare? Ho capito: gli farò un bel solletico sotto al collo.»

Le manine di Squitty Sesamo accarezzano rapide il collo di Miki per provocargli il solletico.

Il bambino dapprima si agita leggermente, quindi si gira scocciato sul fianco opposto rispetto al cugino.

«Dai, Gabry, lasciami dormire!»

« Miki, non sono io! Guarda chi è stato a farti il solletico!»

Il piccolo padrone di casa viene risvegliato da quelle parole senza senso: cosa mai dovrebbe essere, se non un dispetto di suo cugino?

Aprendo gli occhi, scorge il topolino caduto di fianco a lui per colpa del suo rapido movimento a dare le spalle a Gabry.

Sta per urlare per lo spavento, ma Squitty Sesamo è rapido nel mettergli le manine sulle labbra per zittirlo.

«Ehi, non vorrai svegliare tutti. È pur sempre la vigilia di Natale.»

La voce assonnata di Miki contiene anche qualche segno della sua paura dovuta alla sorpresa: «Ma tu chi sei?»

«Giusto, che maleducato, grazie a tuo cugino io conosco già il tuo nome ma non mi sono ancora presentato: sono Squitty Sesamo, ed ho un urgente bisogno di entrambi. Forza, mettetevi addosso qualcosa e venite con me.»

Mentre il topolino si avvia con passo deciso verso l’armadio, Miki implora Gabry per una spiegazione: «Dove stiamo andando?»

Il cuginetto allarga le braccia, mentre si alza dal letto: «Non lo so! È arrivato poco fa, ma è molto agitato e ha bisogno del nostro aiuto.»

Miki cerca di prendere in mano la situazione come farebbero i suoi genitori: «Scusa, Squitty, ci potresti dire dove stiamo andando?»

Il topolino si volta infastidito: «Ho detto Squitty Sesamo. Se dovessimo incontrare qualcuno dei miei fratelli, chiamandomi solo Squitty ci volteremmo tutti, sarebbe davvero imbarazzante. Comunque ho bisogno del vostro aiuto perché ho commesso un grosso pasticcio nel mio paese, ma vi prometto che sarete di ritorno prima che arrivi Babbo Natale, sempre che vi siate meritati qualche regalo.»

I due bambini non sono ancora convinti di volerlo seguire, ma quella situazione ha qualcosa di decisamente magico. Vogliono scoprire cosa si nasconda dietro all’agitazione del nuovo arrivato.

Indossano felpe e calze antiscivolo, aiutandosi a vicenda per la mancanza dei genitori. Impiegano più tempo di quanto Squitty Sesamo si sarebbe aspettato, perciò il topino inizia a battere nervosamente il piede sul pavimento.

Quando finalmente è tutto pronto, i tre si avvicinano all’anta dell’armadio. Squitty Sesamo entra per primo, infilandosi fra i vestiti per raggiungere un piccolo foro sul retro del mobile. Scompare subito nel buio, per fare ritorno qualche istante più tardi.

«Beh, cosa state aspettando?»

Gabry risponde per primo: «Come facciamo ad entrare lì dentro? È troppo piccolo!»

Miki gli fa eco: «Già, ed è anche troppo buio.»

«Avete ragione, i vostro occhi non sono abituati all’oscurità. Prendete quella lucina notturna.»

Giusto, la luce notturna senza fili. Come avevano potuto non pensarci prima? Sperano solo che non si scarichi nel momento sbagliato, ma di solito dura tutta la notte.

Il topolino riprende, dopo che Gabry è tornato verso l’armadio con la luce in mano: «Per quanto riguarda le dimensioni, non vi preoccupate: se vi dirigerete verso il corridoio in cui entrerò con fiducia e coraggio, vi ritroverete alti come me senza nemmeno accorgervene. È una promessa di topo.»

I due bambini si ritrovano come per magia nel corridoio, camminando dietro a Squitty Sesamo. Come aveva detto il topolino, ora sono alti esattamente come lui.

Gabry ride, osservando il suo corpo e quello del cugino così diversi rispetto a come li ricordava fino ad un secondo prima.

Miki invece è più preoccupato da quello che li attende: di fronte a loro, infatti, non si vede assolutamente nulla. Non sa davvero cosa aspettarsi dai prossimi passi nell’oscurità.

Squitty Sesamo li incita affinché aumentino l’andatura: «Forza bambini, non abbiamo tempo da perdere. Seguitemi, non abbiate paura!»

Nonostante le parole della loro guida, i due cuginetti di paura ne hanno eccome!

Con loro grande sorpresa e sollievo, girato un angolo nel buio corridoio, iniziano ad intravedere una luce in lontananza.
«Eccoci, siamo quasi arrivati al mio villaggio.»

L’entusiasmo di Squitty Sesamo è tale che aumenta ancora la velocità delle sue zampe da topo, lasciando indietro i suoi compagni di avventura.

Dopo qualche passo si volta, sorpreso di non trovarli dietro di sé: «Ehi, dove siete finiti?»

Gabri è il primo a rispondere, cercando di far uscire le parole nel bel mezzo del fiatone: «Arriviamo, ma siamo solo dei bambini, devi andare più piano!»

«Già,» aggiunge Miki, «perché non hai scelto di portare con te degli adulti? Loro sì che non ti avrebbero fatto perdere tempo.»

Squitty Sesamo risponde con gli occhioni spalancati: «Starai scherzando, spero: gli uomini adulti mi avrebbero cacciato a pedate non appena mi fossi fatto vedere da loro nel bel mezzo di casa vostra!»

I cuginetti si trovarono d’accordo con il topolino. I grandi non sono proprio in grado di cogliere la magia in un animale che parla, avrebbero visto solo un essere pericoloso e sporco, insomma da eliminare al più presto.

Immersi in queste riflessioni sulla differenza tra bambini e persone più grandi, i tre giungono fino al villaggio.

I nuovi arrivati restano a bocca aperta: quello che si trovano di fronte è un vero e proprio paese, costruito con pezzi di tronchi ed altri oggetti recuperati dalle case degli uomini. Ci sono abitazioni, negozi, parchi dove le mamme portano a spasso i topolini, campi sportivi, e persino un piccolo fiumiciattolo che scorre di fianco alla strada principale. Al posto del soffitto del corridoio, sopra le loro teste c’è ora un altissimo tetto in plastica trasparente, così che la luce del sole possa entrare come se si trovassero all’aria aperta, con la differenza che là sotto gli abitanti sono al riparo dai predatori.

«Wow!», esclama Miki.

Quella cittadina costruita con pezzi recuperati un po’ dove capita ricorda tanto ai due bambini le costruzioni con cui si divertono quando si trovano nei parchi giochi comunali, oppure nei boschi delle Prealpi Lombarde.

«Beh, in effetti devo ammettere che siamo stati proprio bravi.»

Squitty Sesamo non può evitare di vantarsi per l’impegno e la fantasia dei suoi concittadini.
«Ora però ho bisogno che mi seguiate nella biblioteca del villaggio.»

Gabri non riesce a distogliere lo sguardo da tutte le curiosità che trova intorno a sé. Sembra davvero di ritrovarsi in un paese costruito dagli esseri umani, solo che gli abitanti sono tutti topi.

La cosa più buffa è che questi ultimi non hanno bisogno di vestiti, quindi se ne vanno in giro con la pelliccia al vento, senza provare imbarazzo.

Miki, invece, è decisamente interessato a quello che gli riserverà ancora la loro straordinaria avventura. Non sa infatti cosa aspettarsi dalla biblioteca. Spera proprio che Squitty Sesamo si renda conto di come i bambini della loro età non siano ancora in grado di leggere.

In effetti, però, intorno a loro vedono solo cartelli pieni di disegni, nulla che ricordi una scrittura. Che strani libri troveranno in biblioteca? Forse pagine e pagine di disegni? Con quelli sì che i due cuginetti potrebbero dare una mano alla loro guida.

Una volta entrati in un luminoso edificio costruito tutto a vetri, restano di nuovo sorpresi: nel centro dell’unica grande sala c’è un computer, da cui escono decine di cavi collegati a tante postazioni da cui alcuni topi stanno consultando diverse informazioni. Ci sono topi studenti che si preparano per un’interrogazione, topi architetti che scelgono come costruire un nuovo edificio per la città, una nonna che cerca una ricetta per deliziare i nipotini, e per tutti costoro le informazioni hanno una forma diversa da quella dei libri degli uomini: come immaginava Miki, si tratta sempre e solo di immagini.

Gabri pronuncia la domanda più ovvia: «Che strana biblioteca, non avete libri di carta?»

Squitty Sesamo risponde con un sorriso: «Certo che no, non abbiamo la vostra abilità nello scrivere, e non avremmo la possibilità di sfogliare con le nostre zampe decine e decine di pagine. Questo computer, però, contiene tutta la conoscenza di cui abbiamo bisogno. Inoltre, può essere facilmente aggiornato da chiunque faccia delle nuove scoperte.»

Anche in questo caso, i due cuginetti non possono fare altro che trovarsi d’accordo con lui.

«Ora però veniamo al motivo per cui vi ho portati fino a qui.»

La loro guida preme sul touch screen con gesti sicuri, fino a richiamare un disegno molto particolare. Si tratta di un bastone con in cima un ricciolo dorato, tenuto in mano da un topo che sembra molto importante.

«Questo è il conte della Terra sotto la Cupola, Squeo Baffo. Regge lo Scettro del Potere, il simbolo del nostro territorio. Non si tratta solo di un bastone: è un oggetto magico!»

I cuginetti lo squadrano con incredulità.

«Non vi fidate ancora di me, dopo avervi trasformati in esserini piccoli come me ed avermi sentito parlare?»

Miki decide di dargli un’occasione, mentre Gabry rimane piuttosto scettico.

«Questo è l’oggetto che ci rende topi speciali. Senza di esso, torneremmo ad essere roditori qualsiasi: scaveremmo tane, rovisteremmo nelle vostre pattumiere, non sapremmo parlare né comportarci come voi.»

Squitty Sesamo fa scorrere alcune immagini, per lui dotate di grande significato ma incomprensibili per i due bambini. Per fortuna, decide di proseguire nel racconto.

«La leggenda narra di un topo coraggioso, di nome Squattilus, che tanto tempo fa attraversò mari e monti per raggiungere la Foresta dei Mille Serpenti. Laggiù affrontò giorni e giorni di sfide terribili, tanto che arrivò alla fine del suo percorso con la certezza che non avrebbe mai avuto la forza per tornare a casa. Il suo obiettivo era quello di recuperare un tesoro prodigioso, che avrebbe regalato al suo popolo la saggezza degli uomini. Con le ultime energie, Squattilus arrivò al centro della foresta e, dopo avere trascorso un tempo lunghissimo a combattere, dovette per la prima ed unica volta risolvere un indovinello, che nessuno ha portato fuori dalla Foresta. Ha risposto con saggezza, ha conquistato lo Scettro e soprattutto la fiducia e l’ammirazione del più forte e saggio fra tutti i serpenti, Quet… Ques… Aspettate: Quetzalcōātl!»

I due bambini arricciano il naso di fronte a quel nome impronunciabile che il topo sembra aver letto nel disegno sullo schermo di fronte a lui, nonostante sia privo di scritte.

Squitty Sesamo prosegue: «Il serpente alato lo fece salire sul suo dorso e lo riportò a casa, sfinito ma felice per il risultato della sua avventura. Da allora, il nostro popolo ha acquisito la saggezza di vuoi uomini, unita alla capacità dei topi di usare i sensi. Da queste doti combinate, è nata la nostra magia, anche se nessuno di noi è in grado di compiere qualcosa di più serio rispetto a qualche trucchetto per stupire i cuccioli, o per rimpicciolire due bambini fino all’altezza di un topo.»

Miki e Gabry sorridono compiaciuti dopo essere stati citati nell’esempio.

Il racconto di come lo Scettro sia giunto nelle mani di quel popolo è finito, perciò Gabry freme dal desiderio di scoprire quale sarà la loro missione: «Perché ci hai portati qui?»

Una voce risuona nelle teste dei due cugini: «Gabry, Miki, dove vi siete nascosti? Babbo Natale non ama i bambini che stanno svegli per spiarlo. Forza, venite fuori e tornate subito a dormire.»

I cuccioli d’uomo spalancano la bocca per la sorpresa e la delusione.

Miki è il primo a commentare: «Mamma, no, proprio adesso! Dobbiamo ritornare alla stanza.»

Squitty Sesamo sorride, tranquillizzandoli: «Non vi preoccupate, ora conoscete il nostro mondo. Tornerò presto per riportarvi da noi, ed iniziare la nostra avventura.»

Gabry è preoccupato per la loro guida: «Ma come, avevi tanta fretta di farci venire qui!»

«Lo so, ma non si può far preoccupare una mamma. Vedrete, me la caverò, nel frattempo vi riporto indietro con la magia. A presto, piccoli amici miei!»

«A presto, Squitty Sesamo!», rispondono all’unisono i bambini, mentre una folata di vento li conduce in un batter d’occhio nell’armadio, dove riprendono la loro altezza naturale.

Escono quatti quatti, ma non possono evitare che la mamma di Miki li scopra.

«Due monelli, cosa ci facevate lì dentro?»

I cuginetti non sanno cosa rispondere, perciò tornano silenziosamente sotto le rispettive coperte. Qualche coccola più tardi, scivolano in un sonno sereno e piacevolmente ricco di sogni su di un mondo fantastico, popolato da topi dall’aspetto e l’intelligenza simili a quelli degli esseri umani.

Il mattino seguente, festeggeranno il Natale senza ricordare nulla di quanto è loro accaduto quella notte, ma quando l’avventura tornerà a chiamarli, Squitty Sesamo e la Terra sotto la Cupola saranno di nuovo familiari come se i due bambini non avessero mai abbandonato quel luogo magico.

A presto, piccoli amici!

Categorie
Racconti brevi

Patroclo

Il caffè è ormai freddo nella tazza. Patroclo tiene ancora saldamente la presa sul manico, mentre il suo sguardo si perde nel vuoto.

Gli capita sempre più di frequente di non consumare quella bevanda mentre è ancora calda. Non ha tuttavia mai smesso di riempire quasi all’orlo il contenitore con l’acqua bollente, che la polvere istantanea trasforma in una brodaglia a cui sostiene con una cosciente bugia di essersi abituato. Può mentire a sua madre tanto quanto a quei vaghi conoscenti che definisce amici, ma non a sé stesso. Per questa ragione, aggredisce la tazza con un entusiasmo sempre minore.

Il cane di taglia media che un vicino tiene ostinatamente sul balcone provvede a destarlo dal vuoto in cui ha spinto la sua mente. Patroclo emette un timido fischio, di cui l’animale non si cura minimamente. L’uomo si arrende pertanto all’idea di tornare alla realtà, guardando con malcelato disgusto il contenuto residuo della tazza che prontamente svuota nel lavandino.

Il sapore amarognolo che pervade la sua bocca non è piacevole, esattamente come gli capita di constatare ogni volta in cui decide di infliggersi quella punizione a conclusione di un pasto. Si costringe pertanto a raggiungere il bagno per lavare i denti. A seguire sa già che rimedierà qualcosa che assomigli ad un pigiama, quindi si tufferà sul divano e si ammorberà con qualche serie tv che lo guidi ad un sonno rapido e senza sogni.

La porta del bagno è chiusa, come gli ha imposto suo padre durante tutti gli anni della loro convivenza. Una regola che Patroclo aveva sempre giudicata priva di buonsenso, considerato come non avessero quasi mai ricevuto ospiti.

«Non si può mai sapere chi ti ritrovi in casa», era solito dirgli, motivando così la sua pudica necessità di non lasciare intravedere quel luogo così intimo e privato.

Le loro strade si erano separate all’improvviso, quando ad entrare in casa erano stati due malintenzionati, passati curiosamente proprio dalla finestra del bagno. Avevano preso il povero Patroclo in ostaggio, minacciandolo con un coltello alla gola, affinché suo padre non opponesse resistenza e facesse dono ai due ospiti inattesi delle poche cose di valore che possedevano. La famiglia, scioccata dall’evento, aveva deciso di mettere in vendita la casa. Il trentenne Patroclo aveva parallelamente accettato che fosse giunta l’ora di iniziare la sua vita indipendente.

Un riflesso condizionato aveva poi spinto il figlio a perseverare nell’abitudine di chiudere la porta del bagno della sua casa da single, ignorando la sua stessa contrarietà a quella regola domestica . Per contro, dopo quasi trent’anni quello stesso riflesso lo motiva ad aprire sempre con circospezione, nonostante le inferriate alle finestre, quasi che possano comparire dal nulla altri malintenzionati.

Anche questa volta appoggia saldamente la mano sulla maniglia, ruotandola e spingendo l’anta con cautela, pronto a richiuderla rapidamente nel caso in cui individui l’ombra di presenze moleste. Non si tratta di un comportamento razionale: è il suo istinto a guidarlo, mentre la mente vaga per altri lidi.

A differenza delle precedenti millenovecentosettantanove occasioni, tuttavia, la porta si richiude immediatamente, pur se con la dovuta delicatezza.

Una luce naturale ma del tutto fuori contesto, come un sole trasposto tra le quattro mura, ha infatti illuminato la stanza non appena Patroclo ha avvicinato la testa al pertugio. Lui è riuscito a scorgere la doccia proprio di fianco all’ingresso, ma non oltre.

L’uomo è indeciso sul da farsi. Non riesci a convincersi ad entrare per appurare la fonte della luce. Nessuno può avere messo in scena un brutto scherzo, e non c’è alcun dispositivo elettronico che…

«Aspetta un secondo!»

Ricorda all’improvviso di avere installato il mese prima proprio in bagno uno di quei dispositivi che, stando alle pubblicità, avrebbero dovuto occuparsi pressoché di qualsiasi incombenza casalinga. Ha poi capito che per un uso efficace del marchingegno avrebbe dovuto acquistare tutta una serie di altri apparecchi, tra cui elettrodomestici, lampadine, un antifurto… Ha perciò abbandonato il dispositivo su di una mensola, collegato ma inattivo da settimane. L’unica spiegazione che gli viene in mente è pertanto che l’aggeggio si sia illuminato per una qualche segnalazione, anche se l’intensità di quella luce gli è parsa davvero eccessiva rispetto a quell’ipotesi. Se ha ragione, decide che restituirà l’apparecchio invasivo già il giorno successivo.

Apre pertanto nuovamente la porta con maggiore fiducia, cercando conferma al suo sospetto e pronto ad inveire nei confronti della causa del suo spavento.

Spalancata l’anta, ciò che si trova di fronte lo lascia completamente senza parole, per quanto la sua solitudine si accompagni raramente a dei soliloqui significativi.

In corrispondenza della parete di fondo, si apre uno sconfinato campo di girasoli illuminato come nelle ore più calde della giornata.

Quella visione non ha alcun senso. Lì di fronte, oltre il muro dotato di finestra, dovrebbe trovarsi il cortile interno delle due palazzine gemelle in cui abita ormai da tempo. Senza contare il fatto che il suo appartamento è al terzo piano, per quello che la sua mente cerca di ricordargli.

Patroclo muove la sua figura dinoccolata verso il campo, la bocca spalancata per l’incapacità di comprendere cosa stia accadendo. Giunto fino al limite del bagno, saggiamente si piega per allungare una mano verso il terreno: se si tratta di un’illusione dovuta ad una forma di stress senza causa apparente, oppure ad una malattia grave di cui non aveva avuto avvisaglie, vuole evitare di precipitare per i dieci metri che lo separano dal piano della corte. O di pestare il piede contro il muro invisibile, che a tutti gli effetti potrebbe scoprire ancora saldamente al suo posto.

Invece, oltre al profumo dei girasoli e della terra, alla leggera brezza ed al tepore del sole, anche il tatto risponde agli stimoli dell’ambiente in cui incredibilmente si è ritrovato.

Accenna ad un sorriso, perché le sensazioni in cui si ritrova immerso sono così piacevoli da scatenare in lui una reazione istintivamente positiva, quale ormai solo qualche film leggero riesce a provocargli.

S’incammina quasi senza accorgersene tra i girasoli. Accarezza delicatamente le loro teste, prima di fermarsi ad assaporare tutta la fragranza di un esemplare che lo ha colpito per maestà e fierezza.

Si volta e guarda tutt’intorno a sé. La sua palazzina è scomparsa. I profili delle colline coltivate gli impediscono di comprendere dove possa trovarsi. Per il momento non coglie alcun segno di presenza umana, perciò inizia a correre ridendo allegramente verso la vetta più alta.

Raggiunta la cima, capisce subito dove si trova, poiché si tratta di uno dei luoghi più importanti per la sua stessa infanzia. La vallata che declina dolcemente verso il mare è per lui immediatamente riconoscibile, retaggio degli anni trascorsi presso i nonni paterni a Potenza Picena.

Nonna Fausta in modo particolare è stata una delle figure principali per il giovane Patroclo, fino a quando non ha lasciato questo mondo. Era stata lei a condurlo a passeggiare per i campi, facendogli scoprire angoli nascosti di quel paradiso e portandolo ad amare la natura ed il frutto del lavoro dell’uomo. Nonno Mario era molto più severo, chiuso e poco portato per la condivisione anche con il nipote. Gli aveva tuttavia insegnato ad usare le mani per svariate necessità domestiche, cosa di cui lui gli è grato tutt’ora, pur non avendo più modo di rimarcarlo di persona.

Ripercorrendo i passi affrontati con la nonna, Patroclo riporta alla memoria i momenti trascorsi con Teresa. Era stata la sua prima ragazza, conosciuta in un’estate di un millennio prima, quando lui era un quindicenne sceso in villeggiatura da Verona, e lei una quattordicenne del posto, brava ragazza cresciuta in una famiglia semplice ma solida sia per principi, che per stabilità economica.

Si erano rivisti per qualche estate, fino a quando lei non gli aveva mandato una lettera in cui gli raccontava di essersi fidanzata. Non c’era da stupirsi, la ragazza aveva ormai compiuto diciott’anni e la loro relazione a distanza si era tramutata sempre più in una bella amicizia. Patroclo aveva inizialmente provato una forte gelosia, tanto che aveva pensato di partire per dire la sua sul pretendente. Aveva poi capito di dover maturare, accettando il fatto di non poter essere per lei nulla più che un confidente.

Erano tornati a vedersi tanti anni dopo, quando il matrimonio di Teresa era naufragato e, pur non volendo divorziare per non gettare discredito sulle due famiglie, aveva deciso di partire alla volta del Nord Italia per cambiare vita. Un anziano parente le aveva infatti trovato lavoro a Padova, un impiego probabilmente molto noioso ma anche ben remunerato. I due amici di vecchia data avevano pertanto deciso di incontrarsi per confrontare le loro reciproche esperienze di vita.

Dopo un paio di appuntamenti innocenti, la fiamma che aveva covato a lungo sotto la cenere aveva ripreso vigore. Avevano pertanto ripreso a frequentarsi, questa volta potendo contare su di una distanza decisamente più modesta. Avevano circa trent’anni, e nulla e nessuno sembrava potersi frapporre al loro meritato destino insieme.

Tutto era nuovamente franato quando il padre di Teresa aveva avuto un malore. Grazie al boom del turismo nelle Marche, l’attività di famiglia era infatti letteralmente esplosa. Per contro, l’uomo si era fatto carico di tutto l’incremento di attività, senza assumere nessuno per massimizzare i profitti e consolidare l’eredità dell’amata figlia. Il suo fisico non aveva purtroppo retto, costringendolo prima in ospedale, e poi a dare un drastico taglio al suo impegno.

Teresa aveva riflettuto con i genitori su come gestire il futuro di quell’attività. La donna aveva imparato molto da loro, inoltre aveva diverse idee moderne che avrebbero potuto dare un’ulteriore spinta all’azienda. La sua fuga precipitosa aveva procrastinato e potenzialmente cancellato il passaggio dell’azienda in mano sua, ora tuttavia un suo rientro sarebbe potuto essere quanto mai opportuno, anche perché gli utili che già in quel momento venivano generati, fatto salvo per la battuta d’arresto dovuta al malessere del padre, erano in grado di compensare quasi completamente lo stipendio del suo lavoro padovano.

C’era tuttavia la questione della sua relazione con Patroclo. Lui infatti non l’avrebbe mai seguita. Lei, come già accaduto quando era una ragazzina, avrebbe deciso di vivere nella sua terra natia. Ancora una volta, il destino si era messo di traverso.

Dopo un addio molto più doloroso rispetto a quando avevano poco più di diciott’anni, Teresa si era rappacificata con il marito da cui non aveva mai divorziato. Aveva condotto egregiamente l’attività di famiglia, tanto che avevano potuto investire anche su altre attività, tra cui una importante partecipazione in un nuovo villaggio vacanze. Aveva anche dato alla luce due figli, un maschietto ed una femminuccia. Era forse molto più impegnata che realmente felice, ma finché suo padre restò al mondo, leggere l’orgoglio nello sguardo dell’uomo la ripagava di tutti i sacrifici.

Patroclo si era invece completamente chiuso in sé stesso. Aveva quasi escluso dalla sua vita i genitori, gli amici, i colleghi, al di fuori di tutte le interazioni necessarie. Ognuno si era infatti arrogato il diritto ed il dovere di recapitargli una sua opinione su quanto gli era accaduto. All’ennesima dose di saggezza spiccia, nonché priva di una reale conoscenza di ciò che gli era capitato e del senso di vuoto che l’uomo aveva provato, aveva capito di dover escludere qualsiasi interazione umana dalla sua esistenza, per limitare la sofferenza che gli provocava il ritorno con il pensiero a Teresa, ed a ciò che sarebbe potuto essere del loro futuro.

Ora, trent’anni dopo averla vista per l’ultima volta, le sembra quasi di scorgerla nella figura di una donna che gli stando le spalle, di fronte ad una bella cancellata in ferro battuto. Le assomiglia così tanto che Patroclo arriva addirittura a pensare che possa trattarsi della figlia della donna. D’altra parte, a conti fatti la ragazza dovrebbe ormai avere raggiunto la stessa età della madre quando quest’ultima era tornata a vivere in quella stessa terra.

La folta chioma corvina viene sostituita da un viso, che si apre ad un sorriso ampio e sorprendentemente spontaneo.

«Patroclo, sei arrivato finalmente!»

La donna gli corre incontro, felice di vederlo.

Lui resta spiazzato. Come può averlo riconosciuto? La somiglianza con la madre, tuttavia, è davvero incredibile.

Ciò che più lo deve cogliere di sorpresa avviene solo al momento del ricongiungimento, quando lei si slancia verso il suo volto e lo bacia con passione ed una confidenza che non può essere dovuta ad un malinteso.

La donna si allontana, preoccupata dalla rigidità dell’uomo: «C’è qualcosa che non va?»

Non ha senso, tuttavia quella somiglianza, quella spontaneità…

«Teresa», bisbiglia lui con un alito di voce.

Lei ride dolcemente: «Patroclo, sembra che non ci vediamo da trent’anni! Forza, che i miei genitori ti aspettano. Mia madre ha preparato uno stufato che nemmeno t’immagini. Dove hai le valigie?»

Cosa sta succedendo?

«Teresa, perdonami, ho bisogno di riprendermi un secondo. Probabilmente il viaggio e l’emozione per essere arrivato fino a qui mi hanno giocato un brutto scherzo.»

«Non ti preoccupare, vieni in casa. Vedrai che con un buon bicchiere di vino passerà tutto.»

Improvvisamente, dentro Patroclo si manifestano consapevolezze che sono figlie di una realtà che non ha mai vissuto.

E’ certo di avere accettato di mollare tutto, a Verona, per trasferirsi nelle Marche con lei. Lavoreranno insieme per il futuro dell’azienda di famiglia della ragazza, espandendola per quanto possibile grazie alle collaborazione con altre realtà del posto. Questo è ciò che ha deciso di fare, mettere la sua esistenza in gioco per non perdere un’altra occasione di trascorrere il resto dei suoi giorni con la donna che ama da così tanti anni.

Tutte quelle certezze gli regalano un entusiasmo incontenibile. Guarda Teresa negli occhi, per cercare un segno che gli faccia capire se abbia visto giusto. Ci sarà tempo per comprendere se si tratti solo di un sogno, per il momento è il più bel viaggio onirico che gli sia mai capitato.

Lei lo osserva compiaciuta: «Finalmente vedo la giusta felicità nei tuoi occhi. Coraggio, mio padre non ti mangia. Anche perché, poverino, in questo momento non potrebbe fare del male nemmeno ad una mosca.»

Patroclo si lascia prendere per mano da Teresa e guidare nella nuova realtà. Non si volterà più indietro, vivendo una vita lunga, piena e soddisfacente a partire dai suoi nuovi trent’anni, provando anche la gioia della paternità.

Ripenserà a quel lungo periodo trascorso imprigionato in un’esistenza triste e vuota come ad una dura lezione, che non scorderà mai ogni volta in cui dovrà scegliere se amare pienamente o se limitarsi a sopravvivere.

Ma dove sta la realtà?

Qualche giorno dopo l’incontro con il campo di girasoli, allarmati dalle assenze al lavoro, i colleghi allerteranno la polizia. Le forze dell’ordine faranno irruzione nell’appartamento, dopo avere chiesto autorizzazione ad una famiglia travolta dal senso di colpa per aver consentito a quell’elemento di diventare così schivo e malinconico.

I poliziotti gireranno per la piccola casa, trovando la porta del bagno socchiusa. Aprendola con cautela, rinverranno il corpo senza vita di Patroclo, venuto a mancare per ragioni che i medici non riusciranno a comprendere.

Ma in fondo, non è questa la verità.

La verità è semplicemente che da troppi anni quel corpo era un guscio vuoto, che impediva all’anima di Patroclo di spiccare il volo per ritrovare la sua vera dimensione. Quella in cui ha fatto la scelta più coraggiosa e difficile, ma in fondo l’unica dotata di senso: trascorrere la vita con la donna che ha sempre amato.

Categorie
Racconti brevi

Un mare da salvare

Chiamo Sara in continuazione, ma lei non se ne accorge nemmeno. Sarebbe meglio dire che finge di non accorgersene, chiudendo la mente a tutti gli stimoli esterni, compresa la voce di suo padre.

La ragione è molto semplice, e per me decisamente comprensibile, tanto che non mi arrabbio: è immersa in un libro di avventura che le ho regalato da un paio di giorni e che la sta coinvolgendo in modo inaspettato.

Non è certo il primo romanzo per la sua età che si ritrova fra le mani, ma non le era mai capitato di lasciarsi trasportare fino a questo punto nel mondo di fantasia descritto dall’autore.

Come scrittore dilettante sono vagamente geloso, mi sentirei davvero orgoglioso se dovessi partorire un’opera in grado di essere così efficace nel regalare momenti di svago tanto intenso ai lettori. Per questo motivo, non vedo l’ora che Sara abbia raggiunto la fine per sottrarle il libro di nascosto e carpirne i segreti.

Nel frattempo, mia figlia è arrivata al punto in cui la giovane protagonista si immerge con un’amica nelle acque di fronte alla spiaggia in cui trascorre le vacanze con la famiglia. Qui le due giovani trovano un passaggio segreto verso una grotta sotterranea, dove…

«Sara, forza, l’acqua per il bagno è pronta!»

«Ma papà, proprio adesso? Non posso nemmeno portare il libro in bagno!»

«Se fai un’oretta di pausa, vedrai che aumenterà il desiderio di divorare le ultime pagine.»

Delusa, Sara si arrende e si immerge nella vasca da bagno: «Uff… Va bene, arrivo.»

Le lascio qualche minuto per godersi l’avvolgente tepore dell’acqua, mentre mi concedo di scrivere al computer, in bilico sul lavandino del bagno utilizzato dalle donne di casa. Ormai mia figlia ha sette anni, ed è placidamente seduta a canticchiare la canzone riprodotta dal mio telefono, perciò adesso sono io ad isolarmi mentalmente per concentrarmi sul racconto breve che pubblicherò come ogni martedì sul mio blog.

Sara ha chiuso gli occhi per aumentare il senso di relax, imitando chissà quale scena da una serie tv. Nella tranquillità che la pervade, ripensa sorridendo all’ultima pagina che ha letto qualche minuto prima. Dopo pochi istanti riapre gli occhi, sentendo uno strano rumore intorno a sé. Quello che vede la sorprende, e come potrebbe essere altrimenti.

Si alza in piedi, appoggiandosi ai bordi della vasca che sono in realtà divenuti pietre. Di fronte e tutt’intorno a lei, una grotta sotterranea parzialmente occupata dal mare. E’ entrata nel libro!

«Papà? Dove sei?»

Resto con gli occhi sul computer, convinto che Sara stia facendo un gioco per trascorrere i minuti. Forse è il caso che inizi a lavarla.

«Sono qui, sciocchina. Iniziamo a fare il bagno?»

«Aspetta…»

Sara si aggira per la grotta, incapace di capire cosa le stia accadendo. Non è spaventata, perché non vede alcun pericolo intorno a sé. Al contrario, attimo dopo attimo è sempre più eccitata. Non ha avuto tempo di leggere come prosegue l’avventura del libro, ma lo scoprirà di persona, ed è una prospettiva entusiasmante!

Si era immaginata che la protagonista avrebbe trovato un forziere pieno di monete e gioielli appartenuti a chissà quale pirata. Invece, raggiungendo il fondo della grotta mentre il profumo di salsedine le riempie le narici, trova un’enorme e perfetta conchiglia chiusa dal colore lievemente rosato.

«Wow, è bellissima.»

Le valve si schiudono dolcemente, mentre una luce innaturale fa capolino dall’interno della struttura. Sara è costretta a coprirsi gli occhi a causa dell’intensità di quel bagliore improvviso. Quando finalmente riesce a guardare di nuovo verso la conchiglia, scopre all’interno una grossa struttura tondeggiante. Sembra un mollusco, ma ha una forma troppo liscia e regolare per essere una vongola o un’ostrica.

Sorprendentemente, due occhi blu intensi si schiudono al centro del corpo della creatura.

«Tu devi essere Sara. Grazie per essere arrivata fino a qui.»

Mia figlia spalanca la bocca per lo stupore: «Come conosci il mio nome?»

«Io so molte cose, più di quante ne potresti imparare in una vita intera.»

«Davvero? Il mio papà vuole sapere se un giorno la Juve vincerà di nuovo la Champions League.»

Il mitile tentenna per un istante: «Mi dispiace, non posso prevedere il futuro. Ma se sei arrivata fino a qui, è perché ho bisogno del tuo aiuto.»

Sara viene sopraffatta dall’emozione e dal timore di non essere all’altezza di ciò che le verrà richiesto da un essere tanto straordinario: «Sono solo una bambina, come posso aiutarti?»

«Mi puoi aiutare proprio perché sei una bambina. Vedi, le leggende su di me sono arrivate fino al regno degli uomini, perciò tra pochi minuti arriveranno delle persone attraverso quell’apertura verso il mare.»

Sara indossa uno sguardo perplesso: «Non avevi detto di non sapere leggere il futuro?»

«In verità, non voglio dare un dispiacere a tuo padre. Comunque, queste persone arriveranno per portarmi via. Sperano che io sia in grado di far crescere enormi perle, e se non dovessi riuscirci, semplicemente mi venderanno per essere cucinato. Quello che non sanno è che da qui io controllo l’equilibrio di tutto il Mediterraneo. Esistono altre creature come me in ogni mare del pianeta, anche più grandi, anziane e sagge. Tanto tempo fa, alcuni pescatori hanno catturato un delfino che proteggeva il Mare Artico: ha avuto immediatamente fine l’era glaciale che stava raffreddando il pianeta, ed è cominciato quello che i tuoi simili chiamano il Diluvio Universale. Riusciresti ad immaginare cosa accadrebbe se io dovessi scomparire? Finché non arriverà un’altra creatura a prendere il mio posto, il mio amato Mediterraneo rischierà di perdere gli esseri viventi che lo popolano, ed anche il clima sulle sue coste diverrà inospitale per voi uomini.»

La prospettiva atterrisce la bambina. Ha visto con i suoi genitori alcuni documentari sul Mare Nostrum, come lo chiamavano gli antichi romani, e sa benissimo che a causa dell’inciviltà di molti esseri umani, questo ecosistema è già in seria difficoltà. Se davvero quella creatura ne regola gli equilibri, come in cuor suo non sente di dubitare, la sua scomparsa rappresenterà davvero la fine per il Mediterraneo.

Determinata a fare la sua parte, chiede semplicemente: «Cosa devo fare?»

«Prendimi delicatamente tra le braccia. Non avere paura, se sarai attenta non mi farai alcun male. Depositami in un altro angolo della grotta che sia abbastanza lontano da qui. A quel punto, dovrai coprirmi molto lentamente con la sabbia. Fai attenzione: dal momento in cui mi toglierai dalla conchiglia, perderò la capacità di parlarti, ti sembrerò solo una grossa ostrica molliccia. Esattamente come mi verrebbero gli adulti.»

A Sara sfugge un’espressione disgustata. Ha comunque un po’ paura di fargli del male, ma soprattutto resta una domanda molto importante che ha bisogno di una risposta: «Cosa dovrò fare quando arriveranno quegli uomini?»

«Non dovrai fare null’altro che giocare come una bambina qualsiasi. Saranno sorpresi di trovarti qui, ma non ti preoccupare, saranno interessati solo a me. Quando troveranno la conchiglia vuota, la porteranno via e se ne andranno, pensando di avere trovato chissà quale tesoro.»

«E tu come farai senza conchiglia?»

«Lo vedrai, piccola, lo vedrai!»

Gli occhi della creatura brillano all’idea dello spettacolo a cui potrà assistere la bambina.

Sara si dà da fare per eseguire i compiti che le sono stati assegnati. E’ molto agitata, perché deve fare attenzione ma al tempo stesso deve sbrigarsi, per evitare che i malintenzionati la sorprendano.

Ha finito da poco quando dalla piscina d’acqua salata emergono due uomini. Hanno lo sguardo determinato, perlustrano rapidamente la grotta per trovare quello che cercano. Finalmente vedono la conchiglia con le valve spalancate, inesorabilmente vuota.

A quel punto, il più grosso e severo dei due si rivolge a lei: «Ehi, ragazzina, che fine ha fatto la vongola dentro la conchiglia?»

Interviene il socio, con una voce sgradevole: «Già, e la perla? Cosa ne hai fatto?»

Sara è spaventata dall’arroganza di quei due, che danno per scontato che lei abbia a che fare con la scomparsa dell’abitante della conchiglia. Che poi in effetti è la verità, ma cosa possono saperne quei due?

«Io vengo qui a giocare da un po’ di tempo, ma quella conchiglia è sempre stata vuota. Però sono una bambina, magari prima di me c’è stato qualcuno che si è portato via quello che state cercando.»

Il più grosso fa qualche passo verso di lei, sperando di incuterle abbastanza timore da farle dire la verità, qualora Sara stia mentendo: «Ne sei sicura?»

Mia figlia è un tipino sveglio, pensa rapidamente alla soluzione perfetta per togliersi dai guai: «Come potrei portare via a nuoto una perla gigante come quella che forse si trovava lì dentro? E cosa dovrei farmene di una grossa e disgustosa vongola?»

I due si guardano: «Già, ha ragione. Dai, prendiamo la conchiglia e filiamo.»

Quei maleducati spariscono nella piscina naturale senza salutarla.

Una volta assicuratasi del fatto che se ne siano davvero andati, Sara scopre delicatamente la creatura da sotto la sabbia e la riporta dove l’aveva trovata.

Trascorre un po’ di tempo, durante il quale la bambina inizia a preoccuparsi che qualcosa sia andato per il verso sbagliato, e che il suo nuovo amico non tornerà più a parlarle.

Quando la luce del sole che filtra nella grotta inizia ad affievolirsi, poco per volta la marea inizia a salire. La sabbia viene ricoperta dall’acqua salmastra, che arriva fino alle ginocchia di Sara ed avvolge amorevolmente il corpo della creatura.

Improvvisamente, nell’oscurità che ha coperto ogni punto di quel luogo fantastico, una luce prende vita dall’interno dell’essere. Il chiarore si diffonde a tutta la sua figura, che poco per volta sembra sviluppare una sorta di crosta. In realtà, Sara capisce che si tratta di decine di piccoli pesci intervenuti per portare elementi utili a ricostruire la sua protezione. Dopo alcuni minuti, la conchiglia è stata rigenerata e gli occhi blu della creatura tornano ad aprirsi.

«Ce l’abbiamo fatta, piccola. Anzi, tu ce l’hai fatta! Hai salvato il Mediterraneo!»

Sara esulta, scoprendo di avere tenuto la bocca spalancata durante quel meraviglioso spettacolo.

«Ora, è giunto per te il momento di tornare alla realtà degli uomini. Ma non dimenticare mai l’avventura che hai vissuto oggi, e soprattutto non smettere mai di amare le creature del mare.»

A mia figlia sfugge una piccola lacrima: «Te lo prometto.»

Il bagliore torna ad essere accecante. Quando Sara riapre gli occhi, si scopre sdraiata nella vasca da bagno, mentre io mi accingo a lavarla.

«Va tutto bene?», le chiedo quando mi accorgo di uno sguardo malinconico nei suoi occhi.

«Sì, papà. Ho vissuto un’avventura meravigliosa. Mi sembrava che fosse durata per diverse ore, ma in questa realtà è come se non fosse passato più di un minuto.»

«Ti andrebbe di raccontarmela?»

Ed è così che è nato il racconto di questa settimana. Che ci crediate o no, Sara ha davvero vissuto questo incredibile viaggio per salvare il nostro mare, fantastico ma sofferente.

Categorie
Racconti brevi

Cloudland

L’aereo che stava portando Marco da Milano a Bari iniziò la sua discesa.

Il giovane lavoratore aveva cercato di portarsi avanti con alcune attività che sarebbero rimaste inevitabilmente in arretrato durante la pur breve trasferta. Gli era infatti risultato come sempre impossibile dormire durante il volo, nonostante si fosse alzato poco prima delle cinque per raggiungere con un adeguato anticipo l’aeroporto. Come prevedibile, tuttavia, non era riuscito a combinare granché, a causa della sonnolenza che aveva ammantato la sua mente.

Approfittò pertanto della graduale perdita di quota per ammirare il panorama dal finestrino. Fin dalla sua prima esperienza con gli aerei aveva adorato la vista del mondo dall’alto, e quella sensazione non si era mai placata. Poiché non era mai atterrato sulla Puglia, era curioso di scorgerne il profilo costiero, cogliendo così una parte dei suoi quattrocento chilometri di lunghezza.

Purtroppo, rimase deluso: una fitta ed imprevista coltre di nubi gli impedì la vista che desiderava. Attese comunque pazientemente di attraversare quel soffice e denso strato di gocce d’acqua, consapevole di come il suo obiettivo fosse solo rinviato. L’avvicinamento allo strato superiore del candido tappeto si completò in poco più di un minuto, riservando a lui ed agli altri passeggeri uno spettacolo del tutto inatteso.

L’aereo si ritrovò infatti a volare tra due densi strati di nubi, creando un ambiente meravigliosamente surreale. Sopra e sotto di loro, i viaggiatori scorgevano solo un diffuso bianco, mentre di fronte scorgevano la sottile lamina azzurra del cielo. Diverse persone approfittarono di quel momento per prendere il telefono e catturare la poesia di quella visione. Marco fu ovviamente fra questi, rapito dalla bellezza eterea dell’ambiente circostante.

Richiamò subito la galleria dello smartphone per verificare che lo scatto fosse soddisfacente, anche se difficilmente sarebbe riuscito a catturare tutta la poesia che stava percependo. Aumentando lo zoom della foto, tuttavia, si fermò all’improvviso: qualcosa lo colpì e lo spaventò al tempo stesso.

La macchia di colore che aveva colto e che pensava fosse un volatile, allargata al limite di ciò che la definizione consentiva, si era rivelata essere una strana creatura umanoide con le orecchie a punta che sembravano sbucare da un cappello rosso a falda larga. Le leggende lo avrebbero definito un elfo.

Una creatura di fantasia sospesa tra le nuvole, a chilometri dal suolo. Com’era possibile? Alzò lo sguardo dal telefono al finestrino, ma quella macchia era scomparsa. Non si capacitò di cosa potesse essere accaduto, perciò inquadrò nuovamente il panorama con lo smartphone per cercare di ritrovare il punto esatto in cui aveva catturato l’elfo. Come per magia, l’essere era di nuovo lì.

E non era finita: sembrava addirittura che stesse salutando l’aereo su cui Marco viaggiava. Il giovane doveva essere impazzito, evidentemente le poche ore di sonno dovevano avere colpito, anche perché nessun altro passeggero sembrava essersi accorto di quella creatura a cui il velivolo si stava rapidamente avvicinando.

Marco abbassò di nuovo il telefono, e l’elfo scomparve. Decise allora di passare dalla fotografia al video: riprese per una decina di secondi la creatura, e quando riguardò la ripresa, questa sembrò addirittura parlare! L’uomo indossò le auricolari, e sorprendentemente riuscì a sentire la voce amichevole seppur stridente dell’essere fatato.

«Marco, abbiamo bisogno di te, qui a Cloudland! E’ un’emergenza, ma non ti ruberò molto tempo.»

Il giovane si sentì in dovere di rispondere, confortato dall’assenza di altri passeggeri di fianco a lui e confidando che coloro che sedevano nelle file adiacenti non lo stessero ascoltando: «Cosa dovrei fare?»

Magicamente, il video riprese andando oltre ciò che Marco stesso aveva registrato: «Non ti preoccupare, chiudi gli occhi: al resto penserò io.»

Marco pensò che in fondo quella richiesta fosse un ottimo consiglio, perciò chiuse gli occhi e cercò di rilassarsi. Evidentemente si trattava di un sogno, non doveva fare altro che aspettare di atterrare perché quell’assurdo volo onirico avesse termine.

Sentì una corrente d’aria di moderata intensità su tutto il corpo, perciò si vide costretto ad aprire gli occhi. Si ritrovò seduto sulle nuvole, proprio di fianco all’elfo.

«Cosa diamine succede! Come hai fatto a portarmi qui?»

L’elfo sorrise: «Non ti preoccupare, guarda di fronte a te.»

Marco vide l’aereo immobile, a circa trecento metri di fronte a dove si trovava. Il tempo si era fermato, ed in quella realtà acronica evidentemente le leggi della fisica funzionavano in modo differente, prima fra tutte la gravità che non lo stava facendo precipitare verso l’Adriatico.

Sempre convinto di vivere un sogno, il giovane decise di rilassarsi e godersi quell’incontro del tutto originale: «Cosa posso fare per te?»

«Mi chiamo Fanon, sono l’elfo a capo delle correnti. So che tu sei un giovane e brillante ingegnere, avrei bisogno che tu dessi un’occhiata alla sala macchine, perché c’è qualcosa che non va e non riesco davvero a capire cosa. Sarà che il mio esperto di pressione atmosferica è in ferie ed il suo sostituto questa mattina si è ammalato, ma vorrei evitare problemi.»

L’elfo guidò l’uomo all’interno delle nuvole, dove passarono improvvisamente dal bianco che li avvolgeva alle luci artificiali di una enorme sala attrezzata di moderni monitor e sensori di vario genere.

Marco rimase a bocca aperta: «Niente male davvero.»

Fanon si mise i pugni sui fianchi, sorridendo con aria tronfia: «Seguiamo tutte le migliori evoluzioni tecnologiche degli uomini per aggiornare costantemente le strumentazioni, perciò quello che vedi è il meglio che voi umani possiate avere.»

«Bene, qual è il problema?»

L’elfo condusse Marco di fronte ad una serie di monitor che evidenziavano problemi ed errori su diverse sonde. Lavorarono fianco a fianco per quasi due ore, per quella che fu la percezione dell’uomo, finché tutti i valori non furono rientrati nei limiti.

«Bene, niente più spie rosse.»

«Ti ringrazio, non so davvero come avrei fatto senza il tuo aiuto.»

Lieto di essersi reso utile, ma allo stesso tempo consapevole di non avere vissuto altro che un sogno, Marco tornò con l’elfo al di fuori della coltre bianca, dove Fanon lo salutò e lo fece tornare sull’aereo.

L’uomo riaprì gli occhi, scoprendo che il velivolo stava ormai passando lo strato inferiore delle nuvole e la Puglia sotto di loro stava finalmente comparendo. Il ricordo dell’avventura vissuta nella fantasia onirica lo fece sorridere, ma si costrinse a concentrarsi sugli impegni lavorativi che lo attendevano per la giornata.

Quando furono atterrati e poterono riattivare i dati sui telefoni, Marco riprese il suo e verificò di non avere chiamate. Scoprì di avere ancora la galleria aperta, così gli venne istintivo darle un’occhiata. Lo smartphone gli cadde di mano.

Erano ancora lì, sia la fotografia che il video di Fanon. Scoprì che la voce dell’elfo era perfettamente udibile, ma le sue parole erano cambiate:

«Grazie Marco. Non puoi rendertene conto, ma hai dato una grande mano al mio popolo, ed indirettamente anche al tuo. Un giorno, stanne certo, sapremo sdebitarci!»

Fu con le mani tremanti per l’emozione che l’uomo si preparò per iniziare la sua giornata lavorativa. Faticò a concentrarsi, dopo avere scoperto che esistevano creature tanto eccezionali, e che avevano addirittura chiesto il suo aiuto.

Tanti anni più tardi, quando l’umanità non ebbe più bisogno di lui, gli elfi tornarono a trovare Marco per portarlo con sé, rivelandogli i segreti profondi del pianeta su cui entrambi i popoli vivevano e vivono tutt’ora.