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Racconti brevi

Un amore che dura in eterno

Federico sorride, mentre Isabella indossa una buffa espressione in attesa che lo smartphone la riprenda, appoggiata alla ringhiera che incornicia la Rotonda di San Lorenzo.

«Questa non la posso davvero pubblicare,» sentenzia lui.

«Sono venuta così male?»

L’uomo non riesce a togliersi dalla testa che lei non potrebbe riuscire male in fotografia nemmeno se si impegnasse. Si rende tuttavia perfettamente conto di quanto il suo punto di vista sia alterato dai sentimenti che prova per la ragazza.

«Non è questo il problema: fossi in te mi vergognerei se dovessi condividere sui social questa faccia. Cosa ne dici?»

Isabella si allunga verso lo schermo del telefonino, comprendendo subito la ragione della perplessità di Federico.

«Mamma mia! Volevo sembrare buffa, ma così sono semplicemente un’oca.»

Forse, ma pur sempre adorabile. No, decisamente Federico non riesce ad essere obiettivo.

Una fotografia non rappresenta certo il suo problema più grande tra quelli derivanti dall’effetto che quella ragazza ha su di lui.

Per lei ha messo da parte il presente ed il futuro che aveva costruito durante anni di faticosa relazione con la sua migliore amica, divenuta nel tempo sua moglie.

Per lei ha rinunciato ad essere un genitore presente nella vita dei suoi due figli.

Per lei ha litigato con tutti: i suoi genitori, gli amici comuni, perfino qualche collega che aveva giudicato decisamente immorale la sua relazione con la nuova arrivata in ufficio, a discapito di una donna che si è ritrovata sola con un ragazzino di dieci anni ed una bambina di sette.

Per lei ha cambiato casa, routine, abitudini alimentari, stile di abbigliamento.

Qualcuno deve avere pensato che si sia trattato della classica crisi di mezza età, che lo ha spinto tra le braccia di una donna che fosse in grado di restituirgli gli anni perduti. E’ possibile che l’insoddisfazione per anni di vita forzatamente abitudinaria, per fare contenta una moglie mal disposta verso le sorprese e le nuove esperienze, abbia agevolato il suo bisogno di trovare una via di fuga.

Ma non è stato solo questo ad instillare in lui il desiderio di cambiamento.

Isabella si volta per cogliere l’origine di un rumore imprevisto dall’altra parte di Piazza Erbe. Federico, abbagliato dal suo profilo, ne approfitta per ritornare con la mente al giorno in cui si sono incontrati per la prima volta.

Era una tiepida mattinata di metà primavera. L’uomo la sera prima aveva discusso con la moglie per qualche futile ragione, e ciò era stato causa del suo malumore di quel momento. Stava battibeccando con un collega, sottovoce ma con evidente partecipazione.

La porta dell’ufficio si era aperta all’improvviso. Una ragazza sorridente aveva fatto capolino, i vestiti inumiditi dalla pioggia che stava cadendo lieve ma fitta.

«Scusatemi, volevo sapere dove si trova l’ufficio delle risorse umane. Alla reception non ho trovato nessuno…»

Federico era rimasto per un paio di istanti a bocca aperta.

Subito dopo, senza rendersene conto, le sue gambe e la sua bocca avevano iniziato ad agire in autonomia, tramutandolo in un cicerone aziendale pronto ad agevolare l’inserimento della nuova arrivata.

Più tardi, solo in macchina al rientro verso casa, aveva cercato di capire la ragione di quella sua imbarazzante reazione. Non era riuscito a comprenderla fino in fondo, ma da lì in poi loro due avevano formato spesso e volentieri una coppia fissa. Entro poche settimane avevano iniziato a creare pretesti affinché quella loro sinergia si protraesse anche al di fuori dell’ambito lavorativo, inizialmente solo per il platonico e reale piacere della reciproca compagnia. In seguito, durante una trasferta di lavoro la loro attrazione li aveva spinti a varcare i limiti del consentito.

Tre mesi più tardi, la moglie di Federico era stata raggiunta da una voce piuttosto dettagliata in merito all’infedeltà del marito. Non si erano rese necessarie discussioni, perché lui già un paio di sere prima aveva confidato alla sua ex migliore amica il desiderio di prendere un’altra strada.

Ora, l’uomo ed il suo perdurante colpo di fulmine convivono ormai da tre anni. Lui non potrebbe essere più felice, ed è ancora innamorato di Isabella esattamente come il primo giorno. Lei è un po’ preoccupata, perché il figlio che desidera da sempre non sembra voler arrivare. In realtà, non sa ancora che il destino la benedirà presto con una splendida bambina, che tuttavia arriverà nella loro vita solo dieci mesi più tardi. Ciò nonostante, vive la loro relazione con appagante serenità. E tanto quanto l’uomo della sua vita, non sa spiegarsi perché anche per lei si sia trattato di amore a prima vista.

«Andiamo a Palazzo Te? La prenotazione è per le quindici, manca meno di mezz’ora.»

Federico si desta dalle sue riflessioni per tornare alla piacevole realtà.

«Certamente, è ora di darci una mossa.»

La coppia raggiunge in una ventina di minuti uno degli obiettivi della loro visita mantovana. Entrambi sentono in cuor loro che resteranno particolarmente sorpresi da quel luogo.

La visita in effetti non li delude.

Il lavoro di Giulio Romano è davvero ammirevole. Ogni stanza del palazzo li lascia a bocca aperta, dalla Sala dei Cavalli, imponente tributo agli animali cari alla famiglia Gonzaga, ai giochi prospettici della stupefacente Sala dei Giganti, fino alla provocatoria e celeberrima Sala di Amore e Psiche, fra le altre. Tanti dettagli sono stati da loro ammirati e catturati in fotografie che non potranno mai rendere le stesse emozioni di una visione di persona.

«Giardino Segreto?»

La lettura di un cartello lascia entrambi sorpresi. Tutt’e due sentono una forte spinta verso quel luogo, raggiungibile attraversando per intero il cortile e deviando a sinistra dell’esedra.

Entrano da una porta che probabilmente in origine doveva restare chiusa, a meno che non fosse il duca a volerla aperta. Si ritrovano in un ambiente sorprendente, con un appartamento, una loggia verso un piccolo giardino ed un bagno a cui si accede da una sorta di grotta artificiale ma ricreata con pietre naturali. Sui pavimenti, sassi di fiume a coprire quelle che in origine erano piccole strutture per animare gli ambienti con giochi d’acqua.

«Io sono già stata qui.»

La reazione istintiva di Isabella è del tutto sincera.

«Forse con la scuola?»

«No, mi ricordo bene, siamo stati solo a Palazzo Ducale. Eppure, sono certa di essere già stata in questo luogo.»

La sensazione che pervade la donna è carica di sentimenti positivi, ma al tempo stesso preoccupante: come può essersi dimenticata di essere passata da un luogo così appartato ed affascinante, essendo certa che la sua memoria non sia legata all’esperienza scolastica?

«Ora che mi ci fai pensare, anch’io sono già stato qui. Ne sono sicuro.»

I loro sguardi si incrociano. Le loro menti giocano curiosi scherzi.

La visione dei reciproci volti viene sostituita da lampi di ricordi di tempi antichi.

Quegli spazi misteriosi erano stati appena eretti. Una coppia di amanti si nascondeva laggiù per vivere l’amore in piena libertà, senza venire disturbati da sguardi indiscreti ed inopportuni, quali quelli dei rispettivi consorti oppure della servitù. Perché nobili erano gli abiti, ed altrettanto le espressioni, ma al tempo stesso sinceri e confidenziali erano i reciproci atteggiamenti d’affetto.

Federico ed Isabella non hanno la forza, né il coraggio, di confidarsi a vicenda l’esperienza che hanno appena vissuto, anche se i volti sono l’uno per l’altra un chiaro segno di avere condiviso qualcosa di assurdo ed incomprensibile. Com’è possibile che la loro semplice presenza in quel luogo abbia scatenato nelle loro menti i ricordi di altre persone che erano vissute lì secoli prima?

L’uomo prende in mano il telefono per cercare con maggiore dettaglio l’origine dell’Appartamento Segreto, e di Palazzo Te in senso generale. Scopre in tal modo che il duca di Mantova aveva incaricato il grande Giulio Romano di edificare quel luogo affascinante e maestoso, principalmente, si dice, come luogo di svago per la sua dama prediletta. Che, inutile dirlo, non era la moglie.

«Come si chiamavano?» chiede curiosa la donna di fronte a colui che non riesce a leggerle la risposta senza alzare il volto e guardarla negli occhi.

«Indovina.»

«No, non posso crederci.»

«Il duca Federico II Gonzaga e la nobildonna Isabella Boschetti.»

I due innamorati si perdono nei rispettivi sguardi. La coincidenza dei nomi è singolare, ma la sensazione di essere già stati in quel luogo e la visione di un passato lontano sono stati tutt’altro che un’illusione momentanea: la forza di quelle emozioni perdura in loro anche dopo alcuni minuti.

L’uomo va a curiosare su alcuni dipinti d’epoca che riproducono i volti dei due amanti.

«Non ci credo. Guarda tu stessa.»

Isabella resta sbalordita di fronte a quella che le appare come un’immagine speculare rispetto al suo stesso volto. Non può fare a meno di confermare che anche il duca era in tutto somigliante all’uomo con cui sta cercando di costruire una famiglia.

I due innamorati si prendono per mano. Il destino ha regalato loro diversi minuti di solitudine in quel luogo per loro magico, ma sanno benissimo che giungerà presto qualcuno a disturbarli.

Federico, guardando negli occhi adorati la vera donna della sua vita, non può esimersi dall’esprimere un desiderio.

«Mia Isabella, il fato degli esseri umani ci ha condannati a separarci già una volta in passato. Ora non voglio più commettere lo stesso errore: prometti che saremo uniti per la vita?»

«Mio Federico, te lo prometto. Saremo uniti per la vita, e le nostre anime lo saranno per l’eternità.»

Per nulla spaventati dalla rivelazione che nel loro passato erano già stati innamorati, sotto le nobili sembianze di un duca e della sua dama favorita, Isabella e Federico tornano a visitare la città, certi che la loro unione sia destinata a durare per sempre, e che quel luogo magico ospiterà ancora le loro emozioni in futuro.

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Il giustiziere del palazzo

Il caldo è insopportabile. Se solo quel maledetto climatizzatore non avesse smesso di funzionare, ora Salvo si godrebbe un soddisfacente vento freddo, invece di implorare l’Altissimo per un alito rovente che quantomeno muova l’aria.

Invece, quell’apparecchio per cui aveva speso un intero e sudato stipendio del suo vecchio lavoro da magazziniere aveva deciso di lasciarlo in balia della canicola proprio nei giorni più torridi dell’anno, in cui anche di notte non c’è tregua alle temperature sopra ai trenta gradi aggravati dalla caratteristica afa milanese, in grado di tagliare il fiato. Ha provato a ripararlo, facendo appello agli insegnamenti di uno zio elettricista, ma sfortunatamente ha solo peggiorato il danno.

Salvo sta ulteriormente stordendo il suo cervello privato del necessario ossigeno con la visione a ciclo continuo di un canale incentrato sulle televendite. Ha cercato disperatamente qualche torneo di freccette, sua recente passione, ma ha trovato solo repliche di competizioni già viste. Girando a casaccio per le frequenze, è rimasto conquistato dalla promozione di una linea di boxer ad azione rinfrescante, senza avere poi la forza per cambiare nuovamente canale.

Milù, il suo amato canarino, lo implora di trovare qualcos’altro che meriti di essere visto, e se possibile di avere dell’acqua ad una temperatura un po’ più lontana dall’ebollizione. Il suo padrone in quel momento è poco disposto nei confronti di qualsiasi stimolo o richiesta. Comprende tuttavia di doversi spendere per la sopravvivenza del suo fidato animale domestico. Decide pertanto di mettere un documentario sulla natura per distrarlo, mentre si alza a cambiargli l’acqua.

La schiena completamente sudata gli regala un’ulteriore pessima sensazione. Prima di stendersi si concederà una doccia rinfrescante, tuttavia gli orari notturni del suo nuovo impiego da guardia giurata gli rendono impensabile andare a dormire già alle undici di sera, pur nel suo giorno libero.

E’ preoccupato per le sue macchie della pelle, che con quella sudorazione intensa e continua diventano ancora più evidenti. Capisce che dovrà costringersi ad un trattamento specialistico in una beauty farm: la sua virilità potrebbe uscirne sminuita, ma teme davvero di non sentirsi più a suo agio con una ragazza. Non è un caso se dopo Filomena non ha avuto altri appuntamenti.

Salvo passa dalla cucina al bagno per sciacquarsi la faccia ed il collo. Dai palazzi circostanti arrivano i tipici rumori della notte: tapparelle che crollano fragorosamente, neonati che strillano, cani rinchiusi su solitari balconi che reclamano compagnia.

Una persiana sbatte, inattesa. Il rimbombo risuona tra le pareti dei caseggiati, creando un’eco il cui riverbero impiega qualche secondo a consumarsi. Curioso, non sembra esserci un filo di vento, ma forse una brezza ristoratrice sta per arrivare fino a lì.

Mentre sta per abbandonare il bagno, Salvo riflette tuttavia all’improvviso sul fatto che non ci sono persiane in un raggio di almeno mezzo kilometro. Da dove è giunto quel rumore?

Sta cercando di fare mente locale per essere certo della sua valutazione, quando il frastuono si ripete, se possibile ancora più intenso. Avendo alzato il suo livello di attenzione, è ora riuscito a cogliere anche la vicinanza del colpo.

Torna verso la finestra. Tende l’orecchio, sperando che il rumore si ripeta, ma non accadrà. Ciò che gli sembra di percepire è invece un lamento soffocato, come se qualcuno stesse cercando di chiedere aiuto ma avesse un’ostruzione davanti alla bocca. Un tonfo sordo parzialmente attutito mette fine a quella voce: qualcosa di decisamente strano e preoccupante sta accadendo, probabilmente proprio nel suo palazzo.

Salvo decide che è suo compito intervenire. In quanto guardia giurata percepisce il dovere morale di capire cosa stia accadendo a pochi passi da casa sua.

Sfortuna vuole che non abbia il porto d’armi, ma sa usare molto bene una mazza da baseball che gli ha regalato un amico di ritorno dagli Stati Uniti. Inizialmente aveva avuto la tentazione di restituire o di vendere quell’oggetto che considerava inutile e del tutto estraneo ai suoi interessi, ma aveva poi avuto modo di provarne l’efficacia quando aveva messo in fuga dei malintenzionati rischiando di rompergliela in testa.

Peccato avere poi scoperto che si trattava degli agenti immobiliari a cui aveva affidato la vendita di casa sua, a cui aveva lasciato le chiavi dell’appartamento. Furibondo per l’attentato alla sua privacy, aveva immediatamente tolto l’incarico all’agenzia e minacciato di denunciarli.

I malcapitati avevano cercato di giustificarsi ricordando al padrone di casa che le tre di pomeriggio erano nella fascia oraria in cui era loro consentito accedere senza preavviso, come concordato e sottoscritto nel contratto. Nonostante un necessario passaggio al pronto soccorso, da cui uno dei due agenti era uscito con una prognosi di due settimane per un trauma cranico, erano rimasti così sorpresi dalla reazione di Salvo da non trovare la grinta per chiamare le forze dell’ordine. La diatriba si era pertanto conclusa con una reciproca constatazione di non volere più avere nulla a che fare gli uni con l’altro.

La guardia giurata brandisce la mazza e si appresta ad uscire dalla porta. Milù lo saluta con due cinguettii decisi ed incoraggianti: anche se è preoccupata, non lo dà a vedere.

Salvo si porta sul pianerottolo con passo silenzioso, grazie anche alle pantofole che ovattano i suoi movimenti. Il palazzo è stato di nuovo avvolto dalla quiete notturna. L’uomo tende l’orecchio, cercando di escludere i latrati che rimbombano nel vuoto del quartiere. Non sembra davvero di cogliere altri rumori preoccupanti, tuttavia ha già un obiettivo in mente. Il solito.

L’appartamento che passa semestralmente di mano tra gruppi di extracomunitari di diverse etnie è da sempre il bersaglio preferito delle sue invettive nelle assemblee condominiali, nonché dei suoi sfoghi figli dei momenti di noia. Come quando è riuscito a recuperare il numero di telefono della casa e lo ha registrato letteralmente ovunque ci fosse un call center disposto a chiamate in orari molesti: solo in una sera, trascorsa appostato in corridoio di fronte alla loro porta, lo ha sentito squillare almeno quindici volte, sghignazzando ad ognuna di esse.

La sua non è cattiveria, ma una legittima e strenua difesa. Da quell’appartamento sono usciti negli anni odori pestilenziali, rumori a qualsiasi ora della notte, perfino insetti disgustosi. Cercare con tutte le sue forze di convincere il proprietario a vendere la casa ad una tranquilla coppia di italiani, possibilmente milanesi, è pertanto un suo dovere civico.

Cosa diamine possono avere combinato questa volta quei debosciati?

Salvo si avvicina quatto quatto alla porta. La mazza è pronta a calare su qualsiasi cranio emerga dall’uscio. La sua rabbia nei confronti di quelle persone che rovinano la pacifica serenità del suo palazzo gli fa tremare le mani: se ne accorge, costringendosi a prendere un profondo respiro ed a calmarsi.

All’improvviso, un rumore di passi risale le scale. La tensione si alza.

La guardia giurata si costringe a spostarsi dal suo obiettivo, nascondendo goffamente la mazza dietro la schiena.

La testa di un uomo di origini nordafricane emerge dal piano inferiore. Il nuovo arrivato, in abbigliamento da lavoro, è evidentemente molto stanco. Quando alza gli occhi dai suoi stessi piedi, si accorge della presenza dell’italiano sul pianerottolo.

«Buonasera.»

«’sera», risponde con evidente fastidio il vigilante notturno.

Il capofamiglia dell’appartamento in affitto non perde tempo in ulteriori chiacchiere, che nessuno dei due desidera alimentare. Infila le chiavi nella toppa ed entra in casa.

Sbirciando all’interno, Salvo scorge la moglie sul divano, appisolata con un bambino di circa due anni sdraiato sulle sue gambe. Hanno atteso l’uomo di casa finché hanno retto, crollando di fronte alla televisione.

La porta si richiude. La guardia giurata si sente un perfetto idiota: quella famiglia non potrebbe mai rappresentare una minaccia, tantomeno la madre ed il figlio possono essere stati gli autori di quei rumori notturni. Ciò non toglie che la sua missione per riportare l’appartamento in mani più accettabili non si fermerà, ma forse cercherà di andarci un po’ più piano nel prossimo futuro, anche perché al prossimo cambio di affittuari potrebbe andare molto peggio. O forse no. Dipenderà dalla noia e dal suo umore quando finirà il caldo estivo.

A proposito della canicola: la tromba delle scale è un forno, nemmeno di quelli ventilati. Salvo sta letteralmente disseminando sudore sul pianerottolo, tanto che ripartendo alla ricerca della fonte dei rumori notturni rischia di scivolare.

Proprio mentre ritrova l’equilibrio, sincerandosi della salute del suo ginocchio destro, un altro tonfo sordo raggiunge le sue orecchie. Arriva chiaramente dal piano inferiore: finalmente è giunto il momento di agire.

La guardia giurata lascia correre le pantofole sugli scalini, coprendo in pochi istanti la distanza che lo separa dal suo nuovo obiettivo.

Intuisce qual è la porta giusta, poiché su quel piano due appartamenti su tre sono occupati da coppie anziane. Il terzo ospita un ragazzino viziato che non gli è mai piaciuto.

E’ un figlio di papà che si è trovato la strada spianata: non appena si è iscritto all’università, la famiglia lo ha fatto accomodare in quelle quattro mura, senza alcun affitto e con una reddita fissa per le sue esigenze. Inutile dire che il giovane non ha esitato ad approfittarne per trascorrere giorni e notti in festini a base di ragazze e spinelli. Va al contempo detto, per correttezza, che questa sua libertà non ha avuto impatti sulla quiete della palazzina, perché ha sempre cercato di mantenere rumori ed odori sotto controllo, così da poter proseguire i bagordi senza che i genitori sospettassero alcunché.

Questo perlomeno fino a quella sera.

L’orecchio di Salvo aderisce alla porta. Sente chiaramente versi di una persona imbavagliata. Inoltre, un vociare di sottofondo, denso di risatine di apparente scherno, lascia intendere che qualcuno stia tramando qualcosa che deve essere assolutamente fermato.

L’eroe del palazzo è pronto all’azione. L’unico particolare che lo trattiene è il fatto che non ha davvero idea di cosa aspettarsi dall’interno dell’appartamento.

Quando tuttavia sente due ragazzi esplodere in grasse risate, ed una voce femminile scoppiare chiaramente in lacrime, sente di non poter attendere oltre. La mazza si abbatte violentemente sulla serratura, mandandola in pezzi.

Il giustiziere della notte entra furiosamente nella penombra creata da quei pervertiti. Vede chiaramente due ragazzi in piedi, mentre circondano una giovane seduta su di un divano che si regge la testa, in lacrime e con una benda tra le mani. Cosa pensano di fare quei pervertiti nel suo palazzo?

L’arma divina nelle mani dell’eroe inizia a vorticare furiosamente. A nulla servono le disperate urla dei ragazzi, compreso il padrone di casa. I giovani cercano di proteggersi, implorando il castigatore di fermarsi dopo che i primi urti violenti raggiungono le loro braccia.

«Fermati! Cosa diavolo stai facendo?»

Sorprendentemente, è stata la ragazza ad urlare più forte di tutti per arrestare la furia di Salvo. L’uomo impallidisce: ha forse frainteso tutta la situazione?

L’eroe tramutatosi in aggressore scatta un’istantanea della stanza. Vede sé stesso immobile, con la mazza a mezz’aria. La trova sporca di una sostanza biancastra che cola in pezzi verso il pavimento. L’origine di quella materia molliccia è facilmente individuabile nel tavolino di fronte al divano, su cui fa bella mostra di sé una torta di compleanno semidistrutta. Festoni ed un paio di regali rendono ancora più evidente la ragione di quel dolce.

Ma i rumori, le urla, la bocca bendata? Possibile che abbia sognato tutto?

Il giovane padrone di casa prova a spiegarsi, ancora atterrito per la mazza da baseball sospesa in un movimento che avrebbe potuto raggiungerlo al costato.

«Avevamo chiuso la nostra amica in camera per prepararle una sorpresa. Non ho la chiave, perciò lei cercava di uscire e noi la tenevamo chiusa dentro, e la porta deve avere sbattuto diverse volte. Quando non siamo più riusciti a trattenerla, l’abbiamo bendata. L’unico oggetto che abbiamo trovato era uno strofinaccio da cucina, ma era troppo grande, così le ha coperto anche la bocca. Lo so che poteva sembrare che stesse succedendo qualcosa di brutto, e mi dispiace di averla fatta preoccupare, ma non le sembra di avere esagerato?»

Stava andando tutto bene, finché il giovane non ha osato insinuare che la colpa dell’accaduto sia da imputare al nostro beniamino. Che, è giusto dirlo, ha talvolta qualche problema ad ammettere le proprie responsabilità.

«Senti, ragazzino, se non vuoi che ti metta nei guai, chiamando la polizia a quest’ora della notte per denunciare un festino con schiamazzi ed urla sospette, vedi di cucirti la bocca. Se provi a dire a tuo padre o a qualcun altro che la colpa di quella porta rotta è mia, piuttosto che della vostra assurda idea di fare baldoria a quest’ora della notte in un palazzo di gente rispettabile, la prossima volta non sarà la maniglia ad andare in pezzi. Ci siamo capiti?»

I tre giovani annuiscono all’unisono, condividendo la voglia di uscire prima possibile da quella assurda ed imprevedibile situazione.

La mazza torna ad appoggiarsi sulla spalla del giustiziere. L’uomo si volta, dando le spalle agli attoniti giovani e riprendendo la strada di casa per godersi il meritato riposo, dopo avere riportato l’ordine nel palazzo.

Milù lo accoglie festosamente, contenta di rivedere ancora una volta incolume il suo padrone, nonché dispensatore della sua indispensabile acqua.

Salvo regala qualche attenzione al suo animale domestico, quindi si libera degli abiti divenuti opprimenti per il sudore e si regala finalmente una doccia fresca e ristoratrice, prima di accendere il ventilatore che bombarderà di aria tiepida ma quantomeno non stagnante il suo letto.

Cullato dal ricordo di quella serata avventurosa, il paladino di coloro che amano la giustizia si addormenta con un dolce sorriso a dipingergli il volto.

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Patroclo

Il caffè è ormai freddo nella tazza. Patroclo tiene ancora saldamente la presa sul manico, mentre il suo sguardo si perde nel vuoto.

Gli capita sempre più di frequente di non consumare quella bevanda mentre è ancora calda. Non ha tuttavia mai smesso di riempire quasi all’orlo il contenitore con l’acqua bollente, che la polvere istantanea trasforma in una brodaglia a cui sostiene con una cosciente bugia di essersi abituato. Può mentire a sua madre tanto quanto a quei vaghi conoscenti che definisce amici, ma non a sé stesso. Per questa ragione, aggredisce la tazza con un entusiasmo sempre minore.

Il cane di taglia media che un vicino tiene ostinatamente sul balcone provvede a destarlo dal vuoto in cui ha spinto la sua mente. Patroclo emette un timido fischio, di cui l’animale non si cura minimamente. L’uomo si arrende pertanto all’idea di tornare alla realtà, guardando con malcelato disgusto il contenuto residuo della tazza che prontamente svuota nel lavandino.

Il sapore amarognolo che pervade la sua bocca non è piacevole, esattamente come gli capita di constatare ogni volta in cui decide di infliggersi quella punizione a conclusione di un pasto. Si costringe pertanto a raggiungere il bagno per lavare i denti. A seguire sa già che rimedierà qualcosa che assomigli ad un pigiama, quindi si tufferà sul divano e si ammorberà con qualche serie tv che lo guidi ad un sonno rapido e senza sogni.

La porta del bagno è chiusa, come gli ha imposto suo padre durante tutti gli anni della loro convivenza. Una regola che Patroclo aveva sempre giudicata priva di buonsenso, considerato come non avessero quasi mai ricevuto ospiti.

«Non si può mai sapere chi ti ritrovi in casa», era solito dirgli, motivando così la sua pudica necessità di non lasciare intravedere quel luogo così intimo e privato.

Le loro strade si erano separate all’improvviso, quando ad entrare in casa erano stati due malintenzionati, passati curiosamente proprio dalla finestra del bagno. Avevano preso il povero Patroclo in ostaggio, minacciandolo con un coltello alla gola, affinché suo padre non opponesse resistenza e facesse dono ai due ospiti inattesi delle poche cose di valore che possedevano. La famiglia, scioccata dall’evento, aveva deciso di mettere in vendita la casa. Il trentenne Patroclo aveva parallelamente accettato che fosse giunta l’ora di iniziare la sua vita indipendente.

Un riflesso condizionato aveva poi spinto il figlio a perseverare nell’abitudine di chiudere la porta del bagno della sua casa da single, ignorando la sua stessa contrarietà a quella regola domestica . Per contro, dopo quasi trent’anni quello stesso riflesso lo motiva ad aprire sempre con circospezione, nonostante le inferriate alle finestre, quasi che possano comparire dal nulla altri malintenzionati.

Anche questa volta appoggia saldamente la mano sulla maniglia, ruotandola e spingendo l’anta con cautela, pronto a richiuderla rapidamente nel caso in cui individui l’ombra di presenze moleste. Non si tratta di un comportamento razionale: è il suo istinto a guidarlo, mentre la mente vaga per altri lidi.

A differenza delle precedenti millenovecentosettantanove occasioni, tuttavia, la porta si richiude immediatamente, pur se con la dovuta delicatezza.

Una luce naturale ma del tutto fuori contesto, come un sole trasposto tra le quattro mura, ha infatti illuminato la stanza non appena Patroclo ha avvicinato la testa al pertugio. Lui è riuscito a scorgere la doccia proprio di fianco all’ingresso, ma non oltre.

L’uomo è indeciso sul da farsi. Non riesci a convincersi ad entrare per appurare la fonte della luce. Nessuno può avere messo in scena un brutto scherzo, e non c’è alcun dispositivo elettronico che…

«Aspetta un secondo!»

Ricorda all’improvviso di avere installato il mese prima proprio in bagno uno di quei dispositivi che, stando alle pubblicità, avrebbero dovuto occuparsi pressoché di qualsiasi incombenza casalinga. Ha poi capito che per un uso efficace del marchingegno avrebbe dovuto acquistare tutta una serie di altri apparecchi, tra cui elettrodomestici, lampadine, un antifurto… Ha perciò abbandonato il dispositivo su di una mensola, collegato ma inattivo da settimane. L’unica spiegazione che gli viene in mente è pertanto che l’aggeggio si sia illuminato per una qualche segnalazione, anche se l’intensità di quella luce gli è parsa davvero eccessiva rispetto a quell’ipotesi. Se ha ragione, decide che restituirà l’apparecchio invasivo già il giorno successivo.

Apre pertanto nuovamente la porta con maggiore fiducia, cercando conferma al suo sospetto e pronto ad inveire nei confronti della causa del suo spavento.

Spalancata l’anta, ciò che si trova di fronte lo lascia completamente senza parole, per quanto la sua solitudine si accompagni raramente a dei soliloqui significativi.

In corrispondenza della parete di fondo, si apre uno sconfinato campo di girasoli illuminato come nelle ore più calde della giornata.

Quella visione non ha alcun senso. Lì di fronte, oltre il muro dotato di finestra, dovrebbe trovarsi il cortile interno delle due palazzine gemelle in cui abita ormai da tempo. Senza contare il fatto che il suo appartamento è al terzo piano, per quello che la sua mente cerca di ricordargli.

Patroclo muove la sua figura dinoccolata verso il campo, la bocca spalancata per l’incapacità di comprendere cosa stia accadendo. Giunto fino al limite del bagno, saggiamente si piega per allungare una mano verso il terreno: se si tratta di un’illusione dovuta ad una forma di stress senza causa apparente, oppure ad una malattia grave di cui non aveva avuto avvisaglie, vuole evitare di precipitare per i dieci metri che lo separano dal piano della corte. O di pestare il piede contro il muro invisibile, che a tutti gli effetti potrebbe scoprire ancora saldamente al suo posto.

Invece, oltre al profumo dei girasoli e della terra, alla leggera brezza ed al tepore del sole, anche il tatto risponde agli stimoli dell’ambiente in cui incredibilmente si è ritrovato.

Accenna ad un sorriso, perché le sensazioni in cui si ritrova immerso sono così piacevoli da scatenare in lui una reazione istintivamente positiva, quale ormai solo qualche film leggero riesce a provocargli.

S’incammina quasi senza accorgersene tra i girasoli. Accarezza delicatamente le loro teste, prima di fermarsi ad assaporare tutta la fragranza di un esemplare che lo ha colpito per maestà e fierezza.

Si volta e guarda tutt’intorno a sé. La sua palazzina è scomparsa. I profili delle colline coltivate gli impediscono di comprendere dove possa trovarsi. Per il momento non coglie alcun segno di presenza umana, perciò inizia a correre ridendo allegramente verso la vetta più alta.

Raggiunta la cima, capisce subito dove si trova, poiché si tratta di uno dei luoghi più importanti per la sua stessa infanzia. La vallata che declina dolcemente verso il mare è per lui immediatamente riconoscibile, retaggio degli anni trascorsi presso i nonni paterni a Potenza Picena.

Nonna Fausta in modo particolare è stata una delle figure principali per il giovane Patroclo, fino a quando non ha lasciato questo mondo. Era stata lei a condurlo a passeggiare per i campi, facendogli scoprire angoli nascosti di quel paradiso e portandolo ad amare la natura ed il frutto del lavoro dell’uomo. Nonno Mario era molto più severo, chiuso e poco portato per la condivisione anche con il nipote. Gli aveva tuttavia insegnato ad usare le mani per svariate necessità domestiche, cosa di cui lui gli è grato tutt’ora, pur non avendo più modo di rimarcarlo di persona.

Ripercorrendo i passi affrontati con la nonna, Patroclo riporta alla memoria i momenti trascorsi con Teresa. Era stata la sua prima ragazza, conosciuta in un’estate di un millennio prima, quando lui era un quindicenne sceso in villeggiatura da Verona, e lei una quattordicenne del posto, brava ragazza cresciuta in una famiglia semplice ma solida sia per principi, che per stabilità economica.

Si erano rivisti per qualche estate, fino a quando lei non gli aveva mandato una lettera in cui gli raccontava di essersi fidanzata. Non c’era da stupirsi, la ragazza aveva ormai compiuto diciott’anni e la loro relazione a distanza si era tramutata sempre più in una bella amicizia. Patroclo aveva inizialmente provato una forte gelosia, tanto che aveva pensato di partire per dire la sua sul pretendente. Aveva poi capito di dover maturare, accettando il fatto di non poter essere per lei nulla più che un confidente.

Erano tornati a vedersi tanti anni dopo, quando il matrimonio di Teresa era naufragato e, pur non volendo divorziare per non gettare discredito sulle due famiglie, aveva deciso di partire alla volta del Nord Italia per cambiare vita. Un anziano parente le aveva infatti trovato lavoro a Padova, un impiego probabilmente molto noioso ma anche ben remunerato. I due amici di vecchia data avevano pertanto deciso di incontrarsi per confrontare le loro reciproche esperienze di vita.

Dopo un paio di appuntamenti innocenti, la fiamma che aveva covato a lungo sotto la cenere aveva ripreso vigore. Avevano pertanto ripreso a frequentarsi, questa volta potendo contare su di una distanza decisamente più modesta. Avevano circa trent’anni, e nulla e nessuno sembrava potersi frapporre al loro meritato destino insieme.

Tutto era nuovamente franato quando il padre di Teresa aveva avuto un malore. Grazie al boom del turismo nelle Marche, l’attività di famiglia era infatti letteralmente esplosa. Per contro, l’uomo si era fatto carico di tutto l’incremento di attività, senza assumere nessuno per massimizzare i profitti e consolidare l’eredità dell’amata figlia. Il suo fisico non aveva purtroppo retto, costringendolo prima in ospedale, e poi a dare un drastico taglio al suo impegno.

Teresa aveva riflettuto con i genitori su come gestire il futuro di quell’attività. La donna aveva imparato molto da loro, inoltre aveva diverse idee moderne che avrebbero potuto dare un’ulteriore spinta all’azienda. La sua fuga precipitosa aveva procrastinato e potenzialmente cancellato il passaggio dell’azienda in mano sua, ora tuttavia un suo rientro sarebbe potuto essere quanto mai opportuno, anche perché gli utili che già in quel momento venivano generati, fatto salvo per la battuta d’arresto dovuta al malessere del padre, erano in grado di compensare quasi completamente lo stipendio del suo lavoro padovano.

C’era tuttavia la questione della sua relazione con Patroclo. Lui infatti non l’avrebbe mai seguita. Lei, come già accaduto quando era una ragazzina, avrebbe deciso di vivere nella sua terra natia. Ancora una volta, il destino si era messo di traverso.

Dopo un addio molto più doloroso rispetto a quando avevano poco più di diciott’anni, Teresa si era rappacificata con il marito da cui non aveva mai divorziato. Aveva condotto egregiamente l’attività di famiglia, tanto che avevano potuto investire anche su altre attività, tra cui una importante partecipazione in un nuovo villaggio vacanze. Aveva anche dato alla luce due figli, un maschietto ed una femminuccia. Era forse molto più impegnata che realmente felice, ma finché suo padre restò al mondo, leggere l’orgoglio nello sguardo dell’uomo la ripagava di tutti i sacrifici.

Patroclo si era invece completamente chiuso in sé stesso. Aveva quasi escluso dalla sua vita i genitori, gli amici, i colleghi, al di fuori di tutte le interazioni necessarie. Ognuno si era infatti arrogato il diritto ed il dovere di recapitargli una sua opinione su quanto gli era accaduto. All’ennesima dose di saggezza spiccia, nonché priva di una reale conoscenza di ciò che gli era capitato e del senso di vuoto che l’uomo aveva provato, aveva capito di dover escludere qualsiasi interazione umana dalla sua esistenza, per limitare la sofferenza che gli provocava il ritorno con il pensiero a Teresa, ed a ciò che sarebbe potuto essere del loro futuro.

Ora, trent’anni dopo averla vista per l’ultima volta, le sembra quasi di scorgerla nella figura di una donna che gli stando le spalle, di fronte ad una bella cancellata in ferro battuto. Le assomiglia così tanto che Patroclo arriva addirittura a pensare che possa trattarsi della figlia della donna. D’altra parte, a conti fatti la ragazza dovrebbe ormai avere raggiunto la stessa età della madre quando quest’ultima era tornata a vivere in quella stessa terra.

La folta chioma corvina viene sostituita da un viso, che si apre ad un sorriso ampio e sorprendentemente spontaneo.

«Patroclo, sei arrivato finalmente!»

La donna gli corre incontro, felice di vederlo.

Lui resta spiazzato. Come può averlo riconosciuto? La somiglianza con la madre, tuttavia, è davvero incredibile.

Ciò che più lo deve cogliere di sorpresa avviene solo al momento del ricongiungimento, quando lei si slancia verso il suo volto e lo bacia con passione ed una confidenza che non può essere dovuta ad un malinteso.

La donna si allontana, preoccupata dalla rigidità dell’uomo: «C’è qualcosa che non va?»

Non ha senso, tuttavia quella somiglianza, quella spontaneità…

«Teresa», bisbiglia lui con un alito di voce.

Lei ride dolcemente: «Patroclo, sembra che non ci vediamo da trent’anni! Forza, che i miei genitori ti aspettano. Mia madre ha preparato uno stufato che nemmeno t’immagini. Dove hai le valigie?»

Cosa sta succedendo?

«Teresa, perdonami, ho bisogno di riprendermi un secondo. Probabilmente il viaggio e l’emozione per essere arrivato fino a qui mi hanno giocato un brutto scherzo.»

«Non ti preoccupare, vieni in casa. Vedrai che con un buon bicchiere di vino passerà tutto.»

Improvvisamente, dentro Patroclo si manifestano consapevolezze che sono figlie di una realtà che non ha mai vissuto.

E’ certo di avere accettato di mollare tutto, a Verona, per trasferirsi nelle Marche con lei. Lavoreranno insieme per il futuro dell’azienda di famiglia della ragazza, espandendola per quanto possibile grazie alle collaborazione con altre realtà del posto. Questo è ciò che ha deciso di fare, mettere la sua esistenza in gioco per non perdere un’altra occasione di trascorrere il resto dei suoi giorni con la donna che ama da così tanti anni.

Tutte quelle certezze gli regalano un entusiasmo incontenibile. Guarda Teresa negli occhi, per cercare un segno che gli faccia capire se abbia visto giusto. Ci sarà tempo per comprendere se si tratti solo di un sogno, per il momento è il più bel viaggio onirico che gli sia mai capitato.

Lei lo osserva compiaciuta: «Finalmente vedo la giusta felicità nei tuoi occhi. Coraggio, mio padre non ti mangia. Anche perché, poverino, in questo momento non potrebbe fare del male nemmeno ad una mosca.»

Patroclo si lascia prendere per mano da Teresa e guidare nella nuova realtà. Non si volterà più indietro, vivendo una vita lunga, piena e soddisfacente a partire dai suoi nuovi trent’anni, provando anche la gioia della paternità.

Ripenserà a quel lungo periodo trascorso imprigionato in un’esistenza triste e vuota come ad una dura lezione, che non scorderà mai ogni volta in cui dovrà scegliere se amare pienamente o se limitarsi a sopravvivere.

Ma dove sta la realtà?

Qualche giorno dopo l’incontro con il campo di girasoli, allarmati dalle assenze al lavoro, i colleghi allerteranno la polizia. Le forze dell’ordine faranno irruzione nell’appartamento, dopo avere chiesto autorizzazione ad una famiglia travolta dal senso di colpa per aver consentito a quell’elemento di diventare così schivo e malinconico.

I poliziotti gireranno per la piccola casa, trovando la porta del bagno socchiusa. Aprendola con cautela, rinverranno il corpo senza vita di Patroclo, venuto a mancare per ragioni che i medici non riusciranno a comprendere.

Ma in fondo, non è questa la verità.

La verità è semplicemente che da troppi anni quel corpo era un guscio vuoto, che impediva all’anima di Patroclo di spiccare il volo per ritrovare la sua vera dimensione. Quella in cui ha fatto la scelta più coraggiosa e difficile, ma in fondo l’unica dotata di senso: trascorrere la vita con la donna che ha sempre amato.

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L’ira degli dei

Il vento accarezza i lunghi capelli neri e mossi della ragazza.

Uscendo dal bosco per raggiungere la vetta spoglia di una collina, Ku-baba si volta per guardare dietro di sé. La struttura orografica di quella che un giorno si chiamerà Turchia non le consente di scorgere più lontano di qualche centinaio di metri, tuttavia lei sa bene cosa ha lasciato dietro di sé, come ogni componente della carovana.

«Ba, non vieni?»

Lei si concede di non rispondere al fratello per qualche istante, mentre i ricordi le scorrono rapidi e dolorosi davanti agli occhi.

«Ba, non possono aspettarci. Ci lasceranno indietro.»

Ku-baba si arrende ai richiami.

Sa benissimo che Dumuzi ha ragione: sta per calare la sera, ed il cielo non promette nulla di buono. Devono assolutamente trovare un posto in cui fermarsi per la notte prima che le tenebre e la pioggia li inghiottano. Devono inoltre guardarsi dagli animali che si aggirano per i boschi, disperatamente in fuga come loro, spaventati ed affamati.

«Eccomi, andiamo.»

Da quando hanno lasciato precipitosamente la terra in cui sono nati e cresciuti, lei ha dovuto comportarsi come una madre per Dumuzi. D’altra parte, se nulla fosse cambiato nelle loro vite, entro un paio d’anni i loro genitori avrebbero ricevuto diverse proposte di matrimonio per lei, perché aveva ormai compiuto dieci anni ed era perciò entrata in età da marito. Era quindi naturale aspettarsi che potesse prendersi cura di un’altra persona.

Il suo fratellino aveva invece meno di sette anni. Inoltre, si stava sviluppando un po’ più lentamente dei coetanei, anche se gli uomini della loro famiglia erano tutti sufficientemente alti e forti, perciò un giorno Dumuzi avrebbe certamente colmato la distanza con gli altri ragazzi.

La carovana si ferma pochi minuti più tardi. Una radura tra gli alberi, probabilmente creata da una frana non recente, è infatti la migliore opzione per una sosta notturna che abbiano trovato in tutto il pomeriggio. L’autonominato comandante decide pertanto di interrompere per quel giorno la migrazione, con buona pace di chi vorrebbe proseguire per mettere più spazio possibile tra di loro e la massa d’acqua che ha sommerso ogni cosa, sfruttando fino all’ultimo i raggi del pallido sole di fine autunno.

I due giovani fratelli si siedono un po’ in disparte. Non si fidano di molti tra coloro che stanno viaggiando con loro. Non hanno granché che possa attrarre i malintenzionati, fatta eccezione per le pelli conciate dalla loro madre con cui si copriranno e si isoleranno dal terreno umido, e soprattutto per la virtù di Ku-baba. Se qualcuno dovesse cercare di approfittarsi di lei, la ragazza è certa che nessuno accorrerebbe in suo soccorso. Non c’è più nessuno che si preoccupi per lei al punto da rischiare la vita per difenderla.

La voce di Dumuzi giunge nuovamente a distrarla, mentre sta cercando di cogliere sguardi sospetti negli uomini intorno a loro: «Mi manca la mamma.»

Già, la mamma. Ku-baba ha preso molto da lei, sia nell’abilità nel trattare la pelle degli animali, sia nel carattere serio e determinato, ma non per questo chiuso al confronto con gli altri. Dal punto di vista fisico, invece, i due ragazzi hanno incrociato le somiglianze con i genitori: lei ha preso l’avvenenza da loro padre, grazie anche a quegli occhi grigio-verdi così misteriosi, mentre Dumuzi ha ereditato la chioma riccia e la bocca sottile dalla famiglia della madre.

La ragazza emette un sospiro prima di rispondere: «Manca anche a me. In questo momento starebbe cuocendo un capretto, e sarebbe furiosa perché papà starebbe facendo tardi per dare una mano ai pescatori.»

Il fratellino si lascia andare ad una piccola risata malinconica. Suo padre faceva tardi per cena quasi tutte le sere, ed i motivi erano sempre diversi: i pastori di ritorno con le mandrie dopo settimane, le imbarcazioni da tirare in secco dopo la giornata al lago, il colloquio con gli anziani del villaggio per conoscere le decisioni più importanti…

All’improvviso, Dumuzi si slancia verso la sorella, abbracciandola e scoppiando in lacrime. Sono trascorse tre settimane da quando hanno lasciato la loro casa per sfuggire alla furia del lago: i ricordi di quei momenti di terrore sono ancora troppo forti e presenti nelle loro anime.

Ku-baba cerca di essere forte per il fratello, ma non riesce a trattenere la commozione.

I due ragazzi non sono certo gli unici ad avere patito delle gravi perdite. In più punti dell’accampamento ci sono persone di ogni età che, complice la malinconia della solitudine notturna, sono state catturate dalle emozioni. Durante il viaggio c’è stata anche una nascita, ma le attenzioni che il gruppo di circa trecento persone ha riservato alla nuova vita non sono riuscite a contrastare tutta la sofferenza vissuta dall’intero villaggio spazzato via in pochi minuti dalla rabbia di Enki.

«Ve l’avevo detto, il dio delle acque si sarebbe infuriato se non avessimo smesso di svuotare il lago delle sue creature. Bisogna usare la misura in tutte le cose che riguardano gli dei. Ma come al solito non vi interessa ascoltare questo povero vecchio, ed ora eccoci qui a piangere ed a fuggire verso l’ignoto!»

L’ennesima predica da parte del sacerdote a cui era stata affidata la cura del tempio dedicato ad Enki non serve certo ad alzare l’umore generale. Alcune piccole pietre giungono al suo indirizzo da più punti: nessuno ha intenzione di fare del male ad un anziano portavoce di una divinità, ma al tempo stesso preferirebbero che l’uomo non ricordasse a tutti le loro colpe.

Nel popolo sta serpeggiando l’idea che il vero responsabile dell’accaduto sia in realtà Enlil, dio dell’aria. Enki è infatti sempre stato buono e generoso, ed il lago era come sempre abbondantemente ricolmo di pesci. Il fatto che la prima settimana dopo l’onda anomala che ha devastato i villaggi sia stata contrassegnata da venti di tempesta ed abbondanti piogge, che hanno contribuito ad ingrossare enormemente anche i fiumi, sembrerebbe dare corpo a quell’idea. Ma il sacerdote di Enki ha bisogno di sentirsi importante per la comunità, per questo non ha rinunciato all’occasione offerta dal silenzio generale per offrire di nuovo la sua opinione.

L’anziano recepisce comunque la volontà generale e si acquieta, pur continuando a borbottare nel suo giaciglio improvvisato. Nel frattempo, qualche timida goccia di pioggia arriva ad attutire i rumori della notte.

I due fratelli si stringono per proteggersi dall’umidità e per darsi reciprocamente conforto. Masticano silenziosamente la carne essiccata di capra che i pastori sopravvissuti hanno avuto la freddezza di portare con loro mentre preparavano in pochi istanti la fuga, contribuendo a sfamare la carovana che, pur numerosa, non è certo paragonabile alle quasi duemila anime che poteva contare il villaggio prima dell’arrivo delle acque.

Qualche giorno più tardi, il gruppo ha purtroppo perso due ulteriori elementi anziani. Uno di questi è il sacerdote di Enki. I due saggi ricevono una cerimonia sbrigativa ma necessaria per consentire alle loro anime di accedere all’aldilà, che come noto a tutto il loro popolo si trova nelle profondità della terra.

Probabilmente altri due componenti della carovana non riusciranno a raggiungere la destinazione, Biainili, dove si erge la più alta montagna conosciuta alle genti di quella zona del mondo. Un branco di lupi ha infatti aggredito un uomo ed una donna attardatisi poco lontano rispetto ai compagni di fuga, ma abbastanza da consentire agli animali di trovare il coraggio per attaccare. Sono feriti ed hanno la febbre molto alta, per il momento vengono trasportati dagli uomini più forti, ma stanno rallentando il passo di tutti e probabilmente cederanno molto presto alle infezioni.

«Ba, perché non possiamo fermarci qui?»

Dumuzi è stufo di camminare. E’ un bambino, avrebbe bisogno di divertirsi, di imparare cose nuove e di socializzare con i coetanei, invece non fa che marciare ormai da più di un mese. Il freddo umido non aiuta, ma la pioggia continua a cadere giorno dopo giorno ed in una vallata vicino a quella che stavano attraversando due giorni prima hanno visto con i loro occhi una frana portarsi via decine e decine di alberi. Il bambino non è certo l’unico a desiderare di fermarsi e di iniziare a pensare al futuro.

«Ancora non si può, Dumi. In queste zone non si può coltivare, e non sono adatte nemmeno per le capre, che hanno bisogno come noi di stabilità.»

Inoltre, dovrebbe aggiungere Ku-baba, le acque non hanno ancora smesso di salire. Altre persone in fuga che hanno incrociato negli ultimi giorni hanno raccontato di vallate travolte e sommerse dall’onda di piena come se fossero state improvvisamente trasportate in riva al loro lago. Il mondo che tutti loro conoscevano non esiste più. L’unica speranza è continuare a salire, sempre che l’ira degli dei un giorno si plachi.

La ragazza non vuole però turbare il fratello, perciò si è limitata a spiegare le ragioni più ottimistiche che spingono la carovana a proseguire. Se non riusciranno a raggiungere la loro meta, oppure questa verrà a sua volta sommersa, non c’è ragione per cui lei debba guastare ulteriormente gli ultimi giorni di Dumuzi.

Trascorre un’ulteriore settimana, dopo la quale il tempo sembra fortunatamente sistemarsi. E’ caduta anche una leggera nevicata, ma il cielo si è poi finalmente aperto, pulito da un vento freddo ma provvidenziale che ha rivelato la cima delle montagne imbancate. Dai racconti dei pastori della zona, incontrati durante le transumanze dai loro conterranei che avevano portato al pascolo le capre anno dopo anno, sanno che avrebbero trovato terra fertile in abbondanza fra le montagne ed il grande lago di Van, come lo chiamano gli autoctoni.

In preda ad un improvviso entusiasmo, il piccolo popolo accelera l’andatura. Durante una sosta serale viene deciso che, una volta raggiunta la meta, verrà eretto un altare sia ad Enki che ad Enlil, perché le colpe del popolo vengano perdonate.

Il broncio di Dumuzi è piuttosto evidente e non necessiterebbe di parole, che comunque arrivano alle orecchie della sorella: «Io non voglio ringraziare un dio che ha ucciso mamma e papà.»

«Gli dei sono gli dei. Decidono del nostro destino, Dumi, che ci piaccia o no. Quello che possiamo fare è rendergli onore perché siano sempre ben disposti nei nostri confronti.»

«Va bene, ma cosa hanno fatto di sbagliato le persone che non sono riuscite a scappare?»

La domanda, perfettamente sensata, non ha ovviamente alcuna risposta semplice. Le trecento persone fuggite dal loro villaggio, così come quelle che sono riuscite a scappare da altri caseggiati intorno a quello che un giorno verrà chiamato Mar Nero, sono semplicemente state fortunate. I due bambini stavano trascorrendo una giornata sulla collina sopra al villaggio, insieme ad alcuni coetanei, quando hanno visto l’onda di piena giungere improvvisamente dalla parte occidentale del lago. Hanno iniziato ad urlare per richiamare l’attenzione di tutti, ma solo altri adulti che hanno avuto la fortuna di avvedersi come loro di quanto stava accadendo sono riusciti a mettersi in fuga. Per tutti gli altri, non c’è stato nulla da fare, e non c’è alcuna colpa che possa giustificare una simile catastrofe.

«Non lo so davvero. Probabilmente gli dei erano arrabbiati con tutti gli uomini perché stavamo diventando troppi. C’è chi dice che Enlil si sia arrabbiato perché eravamo troppo rumorosi, e lui non riusciva a riposare. Sembrano ragioni davvero sciocche per spiegare quello che è successo, ma alle volte gli dei sono capricciosi e non danno molto peso alla vita degli uomini.»

Dumuzi comprende la ragione per cui è importante rendere onore a quegli esseri così potenti ma al tempo stesso così emotivi. Sua madre una volta si era infuriata con loro perché parlavano di notte e non le permettevano di dormire, ma non aveva certo minacciato di annegarli nel lago per questo.

La consapevolezza della fragilità della vita umana, unita all’ottimismo per un futuro un po’ più roseo, fanno crescere più rapidamente il giovane, che giorno dopo giorno appare più fiero e determinato nello sguardo.

Giunta finalmente in un villaggio sulle righe del lago di Van, anch’esso vittima della furia delle acque ma danneggiato in modo molto più marginale rispetto al loro, la carovana prende possesso di alcuni terreni, che la gente del posto non ha le conoscenze per coltivare.

Nei mesi e negli anni successivi Ku-baba si darà da fare nella concia delle pelli, mentre Dumuzi diverrà un valido coltivatore. Entrambi si sposeranno ed avranno dei figli, e di generazione in generazione il loro sangue si mischierà con quello degli autoctoni.

Il racconto del diluvio che ha cancellato la loro terrà resterà per sempre nella memoria del loro popolo e di tutti quelli che, direttamente o indirettamente, ne sono stati coinvolti. Tutte le genti del Vicino Oriente riporteranno per secoli l’ira degli dei nei loro testi sacri, testimoniando ad imperitura memoria la sofferenza di quelle genti sventurate, e lo stupore delle stesse divinità per la portata di ciò che il loro desiderio di riprendere il controllo su di un’umanità sempre più numerosa ed autonoma ha causato.

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Un mare da salvare

Chiamo Sara in continuazione, ma lei non se ne accorge nemmeno. Sarebbe meglio dire che finge di non accorgersene, chiudendo la mente a tutti gli stimoli esterni, compresa la voce di suo padre.

La ragione è molto semplice, e per me decisamente comprensibile, tanto che non mi arrabbio: è immersa in un libro di avventura che le ho regalato da un paio di giorni e che la sta coinvolgendo in modo inaspettato.

Non è certo il primo romanzo per la sua età che si ritrova fra le mani, ma non le era mai capitato di lasciarsi trasportare fino a questo punto nel mondo di fantasia descritto dall’autore.

Come scrittore dilettante sono vagamente geloso, mi sentirei davvero orgoglioso se dovessi partorire un’opera in grado di essere così efficace nel regalare momenti di svago tanto intenso ai lettori. Per questo motivo, non vedo l’ora che Sara abbia raggiunto la fine per sottrarle il libro di nascosto e carpirne i segreti.

Nel frattempo, mia figlia è arrivata al punto in cui la giovane protagonista si immerge con un’amica nelle acque di fronte alla spiaggia in cui trascorre le vacanze con la famiglia. Qui le due giovani trovano un passaggio segreto verso una grotta sotterranea, dove…

«Sara, forza, l’acqua per il bagno è pronta!»

«Ma papà, proprio adesso? Non posso nemmeno portare il libro in bagno!»

«Se fai un’oretta di pausa, vedrai che aumenterà il desiderio di divorare le ultime pagine.»

Delusa, Sara si arrende e si immerge nella vasca da bagno: «Uff… Va bene, arrivo.»

Le lascio qualche minuto per godersi l’avvolgente tepore dell’acqua, mentre mi concedo di scrivere al computer, in bilico sul lavandino del bagno utilizzato dalle donne di casa. Ormai mia figlia ha sette anni, ed è placidamente seduta a canticchiare la canzone riprodotta dal mio telefono, perciò adesso sono io ad isolarmi mentalmente per concentrarmi sul racconto breve che pubblicherò come ogni martedì sul mio blog.

Sara ha chiuso gli occhi per aumentare il senso di relax, imitando chissà quale scena da una serie tv. Nella tranquillità che la pervade, ripensa sorridendo all’ultima pagina che ha letto qualche minuto prima. Dopo pochi istanti riapre gli occhi, sentendo uno strano rumore intorno a sé. Quello che vede la sorprende, e come potrebbe essere altrimenti.

Si alza in piedi, appoggiandosi ai bordi della vasca che sono in realtà divenuti pietre. Di fronte e tutt’intorno a lei, una grotta sotterranea parzialmente occupata dal mare. E’ entrata nel libro!

«Papà? Dove sei?»

Resto con gli occhi sul computer, convinto che Sara stia facendo un gioco per trascorrere i minuti. Forse è il caso che inizi a lavarla.

«Sono qui, sciocchina. Iniziamo a fare il bagno?»

«Aspetta…»

Sara si aggira per la grotta, incapace di capire cosa le stia accadendo. Non è spaventata, perché non vede alcun pericolo intorno a sé. Al contrario, attimo dopo attimo è sempre più eccitata. Non ha avuto tempo di leggere come prosegue l’avventura del libro, ma lo scoprirà di persona, ed è una prospettiva entusiasmante!

Si era immaginata che la protagonista avrebbe trovato un forziere pieno di monete e gioielli appartenuti a chissà quale pirata. Invece, raggiungendo il fondo della grotta mentre il profumo di salsedine le riempie le narici, trova un’enorme e perfetta conchiglia chiusa dal colore lievemente rosato.

«Wow, è bellissima.»

Le valve si schiudono dolcemente, mentre una luce innaturale fa capolino dall’interno della struttura. Sara è costretta a coprirsi gli occhi a causa dell’intensità di quel bagliore improvviso. Quando finalmente riesce a guardare di nuovo verso la conchiglia, scopre all’interno una grossa struttura tondeggiante. Sembra un mollusco, ma ha una forma troppo liscia e regolare per essere una vongola o un’ostrica.

Sorprendentemente, due occhi blu intensi si schiudono al centro del corpo della creatura.

«Tu devi essere Sara. Grazie per essere arrivata fino a qui.»

Mia figlia spalanca la bocca per lo stupore: «Come conosci il mio nome?»

«Io so molte cose, più di quante ne potresti imparare in una vita intera.»

«Davvero? Il mio papà vuole sapere se un giorno la Juve vincerà di nuovo la Champions League.»

Il mitile tentenna per un istante: «Mi dispiace, non posso prevedere il futuro. Ma se sei arrivata fino a qui, è perché ho bisogno del tuo aiuto.»

Sara viene sopraffatta dall’emozione e dal timore di non essere all’altezza di ciò che le verrà richiesto da un essere tanto straordinario: «Sono solo una bambina, come posso aiutarti?»

«Mi puoi aiutare proprio perché sei una bambina. Vedi, le leggende su di me sono arrivate fino al regno degli uomini, perciò tra pochi minuti arriveranno delle persone attraverso quell’apertura verso il mare.»

Sara indossa uno sguardo perplesso: «Non avevi detto di non sapere leggere il futuro?»

«In verità, non voglio dare un dispiacere a tuo padre. Comunque, queste persone arriveranno per portarmi via. Sperano che io sia in grado di far crescere enormi perle, e se non dovessi riuscirci, semplicemente mi venderanno per essere cucinato. Quello che non sanno è che da qui io controllo l’equilibrio di tutto il Mediterraneo. Esistono altre creature come me in ogni mare del pianeta, anche più grandi, anziane e sagge. Tanto tempo fa, alcuni pescatori hanno catturato un delfino che proteggeva il Mare Artico: ha avuto immediatamente fine l’era glaciale che stava raffreddando il pianeta, ed è cominciato quello che i tuoi simili chiamano il Diluvio Universale. Riusciresti ad immaginare cosa accadrebbe se io dovessi scomparire? Finché non arriverà un’altra creatura a prendere il mio posto, il mio amato Mediterraneo rischierà di perdere gli esseri viventi che lo popolano, ed anche il clima sulle sue coste diverrà inospitale per voi uomini.»

La prospettiva atterrisce la bambina. Ha visto con i suoi genitori alcuni documentari sul Mare Nostrum, come lo chiamavano gli antichi romani, e sa benissimo che a causa dell’inciviltà di molti esseri umani, questo ecosistema è già in seria difficoltà. Se davvero quella creatura ne regola gli equilibri, come in cuor suo non sente di dubitare, la sua scomparsa rappresenterà davvero la fine per il Mediterraneo.

Determinata a fare la sua parte, chiede semplicemente: «Cosa devo fare?»

«Prendimi delicatamente tra le braccia. Non avere paura, se sarai attenta non mi farai alcun male. Depositami in un altro angolo della grotta che sia abbastanza lontano da qui. A quel punto, dovrai coprirmi molto lentamente con la sabbia. Fai attenzione: dal momento in cui mi toglierai dalla conchiglia, perderò la capacità di parlarti, ti sembrerò solo una grossa ostrica molliccia. Esattamente come mi verrebbero gli adulti.»

A Sara sfugge un’espressione disgustata. Ha comunque un po’ paura di fargli del male, ma soprattutto resta una domanda molto importante che ha bisogno di una risposta: «Cosa dovrò fare quando arriveranno quegli uomini?»

«Non dovrai fare null’altro che giocare come una bambina qualsiasi. Saranno sorpresi di trovarti qui, ma non ti preoccupare, saranno interessati solo a me. Quando troveranno la conchiglia vuota, la porteranno via e se ne andranno, pensando di avere trovato chissà quale tesoro.»

«E tu come farai senza conchiglia?»

«Lo vedrai, piccola, lo vedrai!»

Gli occhi della creatura brillano all’idea dello spettacolo a cui potrà assistere la bambina.

Sara si dà da fare per eseguire i compiti che le sono stati assegnati. E’ molto agitata, perché deve fare attenzione ma al tempo stesso deve sbrigarsi, per evitare che i malintenzionati la sorprendano.

Ha finito da poco quando dalla piscina d’acqua salata emergono due uomini. Hanno lo sguardo determinato, perlustrano rapidamente la grotta per trovare quello che cercano. Finalmente vedono la conchiglia con le valve spalancate, inesorabilmente vuota.

A quel punto, il più grosso e severo dei due si rivolge a lei: «Ehi, ragazzina, che fine ha fatto la vongola dentro la conchiglia?»

Interviene il socio, con una voce sgradevole: «Già, e la perla? Cosa ne hai fatto?»

Sara è spaventata dall’arroganza di quei due, che danno per scontato che lei abbia a che fare con la scomparsa dell’abitante della conchiglia. Che poi in effetti è la verità, ma cosa possono saperne quei due?

«Io vengo qui a giocare da un po’ di tempo, ma quella conchiglia è sempre stata vuota. Però sono una bambina, magari prima di me c’è stato qualcuno che si è portato via quello che state cercando.»

Il più grosso fa qualche passo verso di lei, sperando di incuterle abbastanza timore da farle dire la verità, qualora Sara stia mentendo: «Ne sei sicura?»

Mia figlia è un tipino sveglio, pensa rapidamente alla soluzione perfetta per togliersi dai guai: «Come potrei portare via a nuoto una perla gigante come quella che forse si trovava lì dentro? E cosa dovrei farmene di una grossa e disgustosa vongola?»

I due si guardano: «Già, ha ragione. Dai, prendiamo la conchiglia e filiamo.»

Quei maleducati spariscono nella piscina naturale senza salutarla.

Una volta assicuratasi del fatto che se ne siano davvero andati, Sara scopre delicatamente la creatura da sotto la sabbia e la riporta dove l’aveva trovata.

Trascorre un po’ di tempo, durante il quale la bambina inizia a preoccuparsi che qualcosa sia andato per il verso sbagliato, e che il suo nuovo amico non tornerà più a parlarle.

Quando la luce del sole che filtra nella grotta inizia ad affievolirsi, poco per volta la marea inizia a salire. La sabbia viene ricoperta dall’acqua salmastra, che arriva fino alle ginocchia di Sara ed avvolge amorevolmente il corpo della creatura.

Improvvisamente, nell’oscurità che ha coperto ogni punto di quel luogo fantastico, una luce prende vita dall’interno dell’essere. Il chiarore si diffonde a tutta la sua figura, che poco per volta sembra sviluppare una sorta di crosta. In realtà, Sara capisce che si tratta di decine di piccoli pesci intervenuti per portare elementi utili a ricostruire la sua protezione. Dopo alcuni minuti, la conchiglia è stata rigenerata e gli occhi blu della creatura tornano ad aprirsi.

«Ce l’abbiamo fatta, piccola. Anzi, tu ce l’hai fatta! Hai salvato il Mediterraneo!»

Sara esulta, scoprendo di avere tenuto la bocca spalancata durante quel meraviglioso spettacolo.

«Ora, è giunto per te il momento di tornare alla realtà degli uomini. Ma non dimenticare mai l’avventura che hai vissuto oggi, e soprattutto non smettere mai di amare le creature del mare.»

A mia figlia sfugge una piccola lacrima: «Te lo prometto.»

Il bagliore torna ad essere accecante. Quando Sara riapre gli occhi, si scopre sdraiata nella vasca da bagno, mentre io mi accingo a lavarla.

«Va tutto bene?», le chiedo quando mi accorgo di uno sguardo malinconico nei suoi occhi.

«Sì, papà. Ho vissuto un’avventura meravigliosa. Mi sembrava che fosse durata per diverse ore, ma in questa realtà è come se non fosse passato più di un minuto.»

«Ti andrebbe di raccontarmela?»

Ed è così che è nato il racconto di questa settimana. Che ci crediate o no, Sara ha davvero vissuto questo incredibile viaggio per salvare il nostro mare, fantastico ma sofferente.

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Una foglia nel vento

La foglia di castagno volava sospesa dal tiepido vento di fine primavera.

L’uomo in giacca e cravatta le sfilò di fianco con passo celere. Non aveva tempo da perdere: avrebbe dovuto raggiungere l’ufficio entro dieci minuti per prendere parte ad un’importante riunione. A dire il vero, non era poi un incontro così importante. Lo era tuttavia per il suo capo, e lui non aveva intenzione di deluderlo.

Si sentiva a disagio, perché il sole iniziava a farlo sudare e non avrebbe avuto occasione di sistemarsi prima di presentarsi davanti al responsabile, in diretta video con dei potenziali clienti.

All’improvviso, la foglia passò davanti al suo volto. Al naso dell’uomo giunse inattesa la fragranza di un bosco di montagna. Lui rallentò il passo, mentre un ricordo affiorava sulla superficie della sua mente concentrata sugli argomenti della riunione.

Quando era successo? Dovevano essere passati almeno vent’anni, forse di più. All’inizio dell’università aveva conosciuto una ragazza di cui si era follemente innamorato, ed era certo che lei lo ricambiasse. Amavano passeggiare in montagna, tra boschi e vallate, scrutando speranzosi gli spazi di fronte a loro con un cannocchiale per scorgere qualche animale selvatico. Avevano riso molto e si erano divertiti, ma soprattutto avevano pensato di non poter fare a meno l’uno dell’altra.

Poi, finita l’università l’uomo aveva imboccato una carriera piuttosto ambiziosa, seminando la ragazza che si era sentita trascurata e sottovalutata. Fra di loro era finita per motivi futili come l’impiego ed il desiderio di fare carriera, certo non per la ricerca di una felicità che lui avrebbe più facilmente trovato fra le sue braccia.

A distanza di tanti anni, l’uomo sentiva il desiderio di rivivere quelle emozioni. Si fermò, chiamando in ufficio per comunicare che si era sentito poco bene lungo la strada. Tornò all’automobile, che accese e guidò in direzione delle montagne. Qui prese una stanza d’albergo, si cambiò con quello che aveva recuperato di corsa da casa e si diresse verso gli spazi poco battuti che lo circondavano. Dopo un paio di giorni di girovagare, incontrò casualmente la donna della sua vita, che proprio poche settimane prima era uscita dal suo deludente matrimonio.

«Ti andrebbe di riprovarci? Ho capito di essere stato uno stupido, e che non mi interessa di null’altro che di te, e di questo meraviglioso ambiente che ci circonda.»

Se la donna accettò oppure si mostrò restia a riprendere una relazione con lui, non lo sapremo mai, perché in fondo è un’altra storia.

Ciò che più conta è che la piccola foglia di castagno continuò la sua corsa ondeggiante lungo le strade, finché non arrivò sul davanzale di una madre. Come in un cartone animato americano, lei stava depositando proprio lì una torta di mele. Era il dolce preferito da suo figlio, che tuttavia se n’era andato via furibondo dopo una discussione con i genitori.

La madre era preoccupata, perché il ragazzo non si era mai arrabbiato con loro fino a quel punto. Se n’era andato sbattendo la porta, ed in quel momento non era dato sapere dove fosse andato a cacciarsi.

La donna notò la perfezione di quella foglia, e decise di conservarla. Lei tuttavia volò via, delicatamente ma con decisione.

La donna non si perse d’animo: uscì sulla veranda per rincorrerla, e da lì in strada. Fatti una cinquantina di metri all’inseguimento di quell’appendice vegetale, la madre si fermò: il figlio era lì, solo, appoggiato ad un albero mentre rifletteva tra sé.

«Cosa fai qui? Pensavo fossi corso dai tuoi amici.»

Il ragazzo vide la foglia danzare armoniosamente davanti ai suoi occhi, distraendosi e perdendo qualsiasi intento combattivo.

«Non ne ho voglia, e non mi va di litigare con te, soprattutto per motivi così sciocchi.»

«Dai, torniamo a casa: ho appena sfornato una torta di mele.»

«La mia preferita! Grazie, mamma!»

Madre e figlio tornarono insieme in casa, prendendosi bonariamente in giro per quella pseudo-litigata, ormai dimentichi di chi o cosa li avesse fatti incontrare.

La foglia non se la prese e proseguì il suo viaggio.

Giunse infine a danzare intorno ad una bambina di otto anni. Questa giovane donna stava vivendo una giornata molto difficile, una di quelle che restano scolpite a lungo nella memoria di una persona.

In quel momento era sola, seduta su di una panchina in un piccolo parco a pochi passi dal cancello di casa sua. I suoi coetanei le erano passati davanti più volte, invitandola a giocare tutti insieme per distrarla dalle ragioni che la rendevano triste. La giovane aveva rifiutato: sentiva il bisogno di vivere a fondo la sua malinconia, respingendo l’idea di poter ridere gioiosamente proprio in quel momento.

La foglia volò verso di lei proprio quando l’ultimo dei suoi compagni di gioco aveva girato l’angolo per tornare verso casa, lasciandola completamente sola. La piccola appendice di un albero abbandonato tempo prima si appoggiò delicatamente sul suo naso, mentre la bambina aveva lo sguardo rivolto verso il basso.

«Ma… Che cos’è?», disse stupita ed un po’ preoccupata.

La foglia si sollevò di nuovo, tornando però subito verso di lei a solleticarle delicatamente il naso. La bambina rise delicatamente, sorpresa per quell’effetto così piacevole. Sembrava quasi che una mano invisibile si fosse impossessata del picciolo.

La giovane donna afferrò saldamente la foglia e la guardò, studiandola con attenzione. Non notò nulla di particolare, sembrava una comunissima foglia. Eppure…

Eppure, quel tocco delicato le aveva restituito il sorriso. Certo, la malinconia non era del tutto scomparsa, come avrebbe potuto essere altrimenti? Aveva tuttavia acquisito nuovamente il desiderio di distrarsi, di fuggire da quella tristezza che si era impossessata di lei.

Infilò la foglia in una tasca ed iniziò a giocare da sola. A lei si aggiunsero poco per volta altri bambini, finché non arrivò l’ora di rientrare in casa. Qui, la piccola si fece dare un libro dalla mamma, ed all’interno di una pagina che le sembrava più importante delle altre mise quella magica foglia ad essiccare. Decise che sarebbe rimasta con lei per sempre, e che ogni volta in cui avesse sentito il bisogno di recuperare il sorriso, avrebbe aperto quella pagina del libro per ripensare al giorno in cui quel piccolo miracolo della natura aveva spazzato via la sua tristezza.

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Diego e la Pamela sbagliata

Diego si sentì finalmente libero.

Nuotò con energia fino ad allontanarsi dal bagnasciuga preso d’assalto dagli altri turisti. Raggiunse un punto in cui le acque della riviera romagnola erano sufficientemente limpide, restando a galla per guardare verso la riva e scorgere gli amici sotto agli ombrelloni. Alzò il braccio per richiamare la loro attenzione, ricevendo in risposta una salva di urla e diti medi.

Si sentiva un po’ stanco dopo la nuotata, perciò decise di rientrare dove riuscisse a toccare con i piedi, cosa che in effetti accadde già a parecchi metri dalla riva. Emerse dalle acque quando fu ormai a pochi passi dalla sabbia asciutta, sentendosi un vero uomo mentre il mare scivolava via dolcemente dal suo corpo di ventenne.

«Ehi, Diego, invece di fare il figo cerca di venire qua sotto con noi, che mi sono rotto di giocare con il morto.»

Decise di accogliere l’invito dell’amico ad unirsi ad una partita di briscola chiamata. D’altra parte, erano le quattro di pomeriggio: troppo presto per iniziare con l’aperitivo, ma l’ora perfetta per qualche giro di carte e di birre sotto l’ombrellone.

«Che ti ridi, Diego? Hai visto qualche polla con le branchie e la coda mentre nuotavi?»

Il ragazzo non si era accorto di avere un sorriso ebete stampato in faccia. La ragione era molto semplice: era orgoglioso di sé stesso.

Nessuno aveva capito quanta fatica gli fosse costato superare la fine della sua storia con Pamela, la ragazza con cui stava dalla terza media e che ad un certo punto del loro quarto anni insieme aveva deciso di voler fare altre esperienze.

Che poi quelle esperienze avessero un nome ed un cognome preciso, Diego lo aveva capito benissimo: non era così stupido da non accorgersi di come si guardasse di nascosto con un suo compagno di classe, più alto e con più personalità di quanto Diego stesso avrebbe mai potuto sperare di mettere in mostra, nonostante quel ragazzo avesse come Pamela un anno in meno di lui. Semplicemente, non aveva potuto farci nulla: la sua autostima era sempre stata piuttosto bassa, aveva perciò sperato che la ragazza con cui era convinto di arrivare fino al matrimonio stesse solo cercando di farlo ingelosire. Alla fine effettivamente ce l’aveva fatta: ogni volta che Diego li incrociava in giro per il paese, notando la lingua del fighetto persa ad esplorare luoghi di cui lui in anni non aveva nemmeno bussato alla porta, la sua gelosia schizzava a livelli tali da riportare in voga l’anticiclone africano nel bel mezzo di una fredda giornata di pioggia autunnale.

Da allora era stato un po’ come se si fosse gettato a letto, senza mai trovare la forza per rialzarsi. Faceva ogni cosa controvoglia: mangiare, seguire lezione, uscire a bere con gli amici, niente gli dava più emozioni. I suoi avevano pensato che fosse stata solo colpa di una botta di adolescenza dietro al coppino, perciò non avevano fatto altro che prenderlo a male parole quando le sue medie voti erano precipitate in tutte le materie fino alla bocciatura, al terzo anno di liceo. Proprio lui, che se era sempre stato negato con lo sport e poco portato per socializzare, aveva almeno dimostrato di potersela cavare negli studi.

I suoi vecchi avevano pensato di fargli cambiare scuola, mandandolo in un istituto tecnico.

«Magari con delle materie più pratiche ti sentirai più a tuo agio.»

Non lo avessero mai detto. Che poi la maggior parte dei suoi amici frequentava quel tipo di scuola, perciò lo avrebbe anche fatto volentieri, ma non sopportava che proprio loro non capissero il treno che gli era passato sopra la testa.

Era trascorso quasi un anno dalla fine della storia con Pamela, eppure le parole dei suoi genitori furono in grado di tirare fuori tutta la frustrazione che aveva dentro. Scappò di casa senza pensarci un attimo.

Lo ritrovarono gli amici dopo tre giorni nella piazza di un paese vicino, mentre stava seduto con un panino che non era proprio appena preparato. Guardava nel vuoto, seduto per terra con la schiena appoggiata ad uno dei monumenti più brutti del mondo, giusto per aggiungere un po’ di tristezza ad una scena che era già di per sé deprimente.

Lo riportarono a casa, dove i genitori gli fecero fare un test per vedere se in quei giorni si fosse drogato. Lui quasi non se ne accorse, come non si rese conto dell’anno successivo in cui, quasi in folle, passò per il rotto della cuffia il terzo anno di liceo.

Poi, un’estate, incontrò un tizio fuori da un bar.

Aveva compiuto da poco diciotto anni, ma non aveva voluto festeggiare né in famiglia, né con la compagnia. Era comunque partito per le vacanze al mare, giusto perché era stato prelevato da casa con la forza.

Erano in Riviera, lui e gli amici che se lo portavano dietro più per pietà che per compagnia, visto che non parlava quasi mai e non spiccicava un sorriso neanche se minacciavano di pagarlo. Cosa che ogni tanto in effetti facevano, dopo il terzo giro di medie, ma lui non se la prendeva, perché in effetti stava almeno una media avanti a tutti.

Ecco, una di quelle sere stava seduto in silenzio come sempre, fuori da un bar di Rimini. All’improvviso arrivò un uomo molto più grande di loro, con i capelli ricci lunghi fino alle spalle, magro come un chiodo, una improbabile camicetta blu a fiori e dei pantaloncini kaki a mezza gamba. La testimonianza sulle scarpe non è giunta con certezza fino ai nostri giorni, ma qualcuno dice che fossero infradito, se vi può interessare.

Il tizio iniziò a parlare fitto con Diego. La cosa strana è che non sembrava più ubriaco o fumato di lui, ma insisteva per cercare di farlo parlare, o almeno di tirarlo fuori dal suo stato catatonico. Andò avanti per quasi un’ora, mentre gli amici del ragazzo iniziavano a chiedersi chi diamine fosse quel tizio e cosa volesse da lui.

Sì, beh, forse avevano impiegato un po’ troppo a farsi queste domande, ma ormai erano abituati a lasciare Diego in disparte.

Fatto sta che, dopo appunto quasi un’ora di chiacchiere fitte a senso unico, il nostro protagonista si alzò e cacciò un grido che i poliziotti di tutto il circondario arrivarono a frotte in trenta secondi, ma solo per vederlo correre via come un pazzo mentre si toglieva la polo e la gettava in mezzo alla strada.

Ritornò al bar dopo dieci minuti, fradicio dopo essersi gettato in mare: il tizio era ancora lì, e Diego lo abbracciò sorridendo.

Nessuno seppe mai cosa quell’uomo avesse detto, perché Diego non lo ha mai confessato, ma il ragazzo era improvvisamente rinato. Aveva trovato dentro di sé la forza che gli serviva, oltre a una bronchite che si prese dopo essere rimasto tutta la sera bagnato e senza maglietta.

Impiegò comunque due anni per tornare davvero quello di prima, forse anche un po’ meglio, perché acquisì poco per volta più autostima. Dopo avere concluso la maturità con un bel voto ed essersi iscritto all’università, si concesse la vacanza in Riviera che stavamo descrivendo all’inizio di questa storia.

Dicevamo che Diego era appena rientrato a riva dopo una nuotata al largo. Arrivò sotto l’ombrellone dando una generosa scrollata alla testa bagnata, inondando birre e carte per far saltare la mosca al naso agli amici, che lo rincorsero in giro per la spiaggia facendo a loro volta saltare la mosca al naso agli altri turisti. Tutti in fondo volevano divertirsi, ma anche se ridevano alla fine raggiunsero Diego e gliele suonarono. Pazienza, anche lui stava ridendo, ed in fondo era un ventenne in forma, perciò non si accorse quasi di nulla.

Chi si accorse di qualcosa fu una ragazza parecchio carina, che guarda caso si chiamava Pamela, ma non c’entrava nulla con la ex di Diego. Lo aveva visto lottare per gioco con gli amici, ma soprattutto lo aveva visto sorridere.

Quando i loro occhi si erano incrociati, il cuore di entrambi aveva perso un battito nello stesso momento.

Penso siate abbastanza abituati a questo tipo di racconti da sapere come andò a finire: Diego si accorse all’improvviso di avere perso anni dietro alla Pamela sbagliata, ma soprattutto capì una volta per tutte che non importa cosa pensino gli altri di te.

E’ nel momento in cui credi davvero in te stesso che il mondo realizza finalmente quanto vali.

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Il vortice del passato

Una nuova ruga, o almeno così le pare.

Una piccola lacrima scende a segnarle il volto. Non è la vecchiaia a farle male, piuttosto la vacuità. Il grigio nulla che la avvolge, senza darle scampo.

«Chi è Monica?»

Questa è la domanda che la attende quasi ogni mattina. Ci sono giorni migliori, in cui questa domanda va intesa in senso relativo. Il dubbio riguarda la sua personalità, il suo passato, le amicizie ancora presenti nella sua vita.

Ci sono invece altri giorni in cui quella domanda ha valore assoluto. Chi è Monica? Sono forse io?

La foto di una donna sorridente, radiosamente bionda, le ricorda un nome. Chiara. Sì, lei è Chiara, sua figlia. Forse è per via del fatto che quella persona è pressoché l’unica presenza nella sua vita, se da tempo è molto più sicura di chiamarsi ‘mamma’ piuttosto che ‘Monica’.

Ci sono parti del suo appartamento che le sono decisamente familiari, altre meno. La cucina fa parte delle stanze amiche, ma l’orologio le spiega che non è ancora ora di preparare il pranzo. Peccato, era certa di avere un po’ fame.

Si sposta verso la camera. Lì è sicura di trovare una televisione. Toh, ed è anche bella grande! Forse Chiara l’ha spostata in quel punto apposta per lei, perché si è accorta che sua madre non usa più l’altra stanza. Ma che sciocca, non ci sono altre stanze!

Comunque, non ha molta voglia di guardare la televisione. Non c’è mai niente di bello, al mattino. A parte la domenica, quando c’è la messa da Roma. Quel nuovo Papa le piace proprio. Vediamo se oggi è domenica. No, purtroppo.

La televisione viene spenta. E ora?

C’è una fotografia che richiama la sua attenzione. In compagnia di un uomo, grassottello ma con la faccia simpatica, c’è una donna che le assomiglia. E’ mora, ed è un po’ più grande di sua figlia Chiara.

A Monica non risulta di avere altre figlie femmine, perciò deve trattarsi di una sua foto di qualche anno prima. Ma chi è il simpatico cicciottello?

I ricordi si incontrano e si allontanano.

Un nome fa capolino. Franco. Sì, quel nome le scalda il cuore. Dev’essere lui quell’uomo.

Ma no, non è possibile. Quella persona le ispira amicizia, voglia di stare in compagnia. Non amore.

Il nome Franco le fa venire voglia di alzarsi e di andare verso il calendario appeso ad una parete. Non ha idea di che giorno sia, ma non le importa. Ciò che vuole vedere è l’immagine riprodotta in cima alla pagina.

E’ certa che si tratti del Trentino.

Franco. Il Trentino.

Ha bisogno di sedersi sul letto. Si tiene la testa tra le mani, mentre i ricordi si affollano, spingendo per emergere dall’oblio.

Quel giorno faceva caldo, anche se si respirava bene lassù. Lei e Franco stavano vivendo una piccola vacanza nei boschi del Trentino, in una pensione in cui lui aveva lavorato un paio di anni prima come cameriere nel ristorante interno.

Avevano camminato a lungo tra gli alberi. Il tempo non contava, perché si amavano ed adoravano trascorrere le ore insieme a chiacchierare. Ridevano spensierati per ogni fesseria che uno dei due dicesse.

Erano usciti dal bosco. Si stavano incamminando verso un’altra parte dell’abetaia, attraversando un piccolo prato deserto.

Ad un certo punto un serpentello era strisciato vicino a Monica, fuggendo rapidamente verso spazi meno frequentati. Lei si era spaventata a morte e, nei pochi passi che aveva fatto in direzione di Franco era inciampata, procurandosi una piccola distorsione alla caviglia.

Lui si era preoccupato. Aveva controllato che non si fosse fatta nulla di grave, quindi aveva tirato un sospiro di sollievo.

«Forza, rimettiamoci in cammino.»

«Come pensi che possa camminare in queste condizioni?»

Monica ricorda quel momento come fosse successo pochi minuti prima: lui l’aveva sollevata delicatamente, prendendola in braccio, e così l’aveva portata fino alla pensione.

L’odore del sudore di Franco per lo sforzo e per la giornata calda si fondeva meravigliosamente con i profumi dei boschi, mandandola in estasi.

Erano rientrati in stanza, dove avevano fatto l’amore senza più pensare alla caviglia. Monica fatica a ricordarsi come fosse stato, perché ha sempre vissuto il sesso con un trasporto tale da farle spesso perdere il controllo. Tuttavia è certa che dev’essere stato tremendamente passionale ed intenso.

Non ha idea di quanti anni siano passati da allora, e di che fine abbia fatto Franco. Perché se c’è una cosa di cui è completamente certa, è che l’uomo della foto in camera non è Franco.

Luigi, ecco come si chiama. Aspetta un secondo, Luigi è suo marito!

O meglio, era suo marito. E’ sicura che ormai non ci sia più.

Ha bisogno di alcune risposte, perciò richiama sul cordless il numero di Chiara.

«Ciao mamma, come stai?»

«Bene, cara, ma ho bisogno di te.»

Dalla voce della figlia trapela la sua preoccupazione: «Cos’è successo?»

«Nulla, piccola mia. Solo questa maledetta testa che fa cilecca.»

Chiara si lascia andare ad una piccola risatina di sollievo. Scherza spesso con la madre sulla malattia per esorcizzarne gli effetti più difficili da accettare: «Spara, chiedimi quello che vuoi sapere.»

«Che età avevo quando ci siamo sposati, io e tuo padre?»

«Trentacinque anni.»

Monica è sorpresa dalla prontezza della figlia: «Ah. Immagino di averti fatto già fatto questa domanda in passato.»

«Un altro paio di volte negli ultimi due mesi.»

La donna saluta Chiara, ringraziandola.

La ragazza del suo ricordo era giovane, molto giovane. Sicuramente aveva meno di trentacinque anni.

Franco doveva essere stato un suo grande amore, prima che la vita la portasse a sposare Luigi.

Sente il bisogno di suggellare quel ricordo, per quanto sappia che forse già poche ore più tardi sarà destinato a svanire.

Si guarda intorno, alla ricerca di un aiuto. Lo trova in una scatola di cui non conosceva l’esistenza. Su di essa fa bella mostra di sé un cartello: “Da Monica x Monica”.

Lo appoggia delicatamente sul letto, perché le viene in mente che lì dentro troverà ciò che di più prezioso le sia rimasto. Tolto il coperchio, ecco esplodere un caleidoscopio di fotografie, documenti e lettere.

Negli strati superiori sopravvivono pagine della sua vita con Luigi. Quanti posti hanno visto insieme! Ci sono anche alcune immagini dal Trentino, ma chissà perché, di quelle vacanze non ha alcun ricordo.

In verità, nessuno di quegli scatti la emoziona. E’ come se la malattia si fosse portata via tutti i sentimenti che ha provato per il marito, più di quanto non abbia fatto la scomparsa del povero Luigi.

Ha ormai vuotato il contenitore. Ha sfogliato avidamente tutto ciò che riguarda Chiara, compresa una fotocopia del suo attestato di laurea. Le è tornato alla memoria l’orgoglio che ha provato il giorno della discussione della tesi, e sente in cuor suo che quella ragazza non l’ha mai delusa. Mai.

Infine, come se fosse stato pudicamente nascosto da qualcuno che non voleva far emergere quel passato ormai lontano, ecco comparire Franco.

In tutto Monica trova quattro fotografie ingiallite e tre lettere, consumate da frequenti riletture.

Le prime la fanno sorridere, anche perché in ogni istantanea sia lei che Franco compaiono in tutta la loro giubilante serenità giovanile. Tra le seconde, invece, ce n’è una che le spezza il cuore.

E’ la lettera con cui lui le ha dato l’addio.

“Mia cara, sono ormai trascorsi quasi due anni dal nostro ultimo incontro. Qui in Germania mi trovo bene, e contrariamente alle mie intenzioni, non penso che rientrerò mai più. Certo, i tedeschi non sono sempre accomodanti con noi italiani, ma se ti dimostri un buon lavoratore, finiscono per apprezzarti e per considerarti quasi come uno di loro.

E’ con una punta di dispiacere che ti annuncio anche il mio fidanzamento con una ragazza conosciuta qui. Sono felice, ma certo so che i nostri meravigliosi momenti sono ormai legati al passato, e questo mi rattrista. Immagino con un poco di gelosia che nel frattempo si sia creata una coda di ammiratori di fronte alla tua porta, per questo ti auguro che un brav’uomo faccia presto breccia nel tuo cuore, se ciò non è già accaduto.

Tuo per sempre, Franco”

Nella nebbia si fa strada un treno in corsa. Su ogni vagone, un’immagine: la lettera che le cade di mano, mentre le lacrime scendono copiose; la desolante solitudine che si avvinghia intorno al suo essere più profondo; la decisione di cedere alle lusinghe di Luigi, il ‘brav’uomo che faccia presto breccia nel tuo cuore’, solo che dopo Franco nessuno avrebbe mai più avuto il suo amore incondizionato; infine l’arrivo di Chiara, che aveva veramente riempito quel vuoto affettivo e che ancora oggi rappresenta il suo vero sostegno.

Si sente sciocca, pensando che la malattia le stia facendo rivivere quella incalzante sequela di emozioni perlomeno per la terza volta, ma come se fosse la prima.

Poi un pensiero si fa strada in lei. Forse, se la sua memoria non fosse stata devastata con la furia cieca che i medici chiamano Alzheimer, Franco sarebbe scomparso per sempre, sommerso dalla presenza di Luigi nei momenti più importanti dei suoi ultimi cinquant’anni.

Decide che non valga la pena di essere triste, e che se il suo destino è quello di rivivere altre cento volte quelle emozioni, ebbene lei balzerà per altre cento volte dall’amore alla fredda solitudine, con coraggio, finché il buon Dio non scriverà per lei la parola

FINE

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Stress

Francesco percepiva che la bomba ad orologeria del suo stato di stress ticchettava con un’intensità sempre più difficile da ignorare.

Sentiva le orecchie fischiare costantemente. Era seduto in ufficio, cercando disperatamente di concentrarsi sulle sue scadenze più urgenti.

Appena fuori dalla sua porta, un gregge di pecore pascolava ininterrottamente ormai da due ore. C’era chi si spostava furiosamente tra uffici, bagni, area fumatori e zona break, giusto per dare l’idea di essere sommerso dal lavoro. C’era ci preferiva belare fastidiosamente, inscenando riunioni in presenza o al telefono nel corridoio: persone ottenebrate dalla malsana idea che risparmiare al collega di scrivania il supplizio della loro voce, per poi tediare con la stessa cacofonia un intero blocco di uffici, fosse in effetti una scelta responsabile. C’erano infine i cani da pastore che di tanto in tanto iniziavano a ringhiare ed a latrare al telefono dopo aver ingurgitato una sigaretta, sbattendo la porta del loro ufficio che aveva l’ingrato e fallimentare compito di provare a contenerne la voce, volutamente mantenuta su volumi altissimi.

Nulla di strano, normale vita da impiegati.

Il problema per Francesco era che il suo stato emotivo gli impediva di ignorare qualsiasi stimolo ricevessero le sue orecchie, dal più fastidioso a quello più innocuo.

Quando sentì una fragorosa risata scoppiare a pochi passi dal suo cranio prossimo alla deflagrazione, non resse oltre ed andò a richiamare i colleghi. Si trattava di un gesto per lui inusuale: aveva sempre evitato di scontrarsi con altre persone nelle sue esperienze lavorative, quale che fosse il motivo del disaccordo. Aveva infatti colto maggiori risultati affrontando ogni situazione con il dialogo, accompagnato da una generosa porzione di sorrisi.

Il tempo per affrontare i problemi con positività era tuttavia giunto al termine, perciò si intromise nella piacevole conversazione che stava avendo luogo a tre metri dalla targhetta con il suo nome, chiedendo a quei perplessi esseri umani con il residuo di cortesia che gli restava di trasferire il momento di goliardia di fronte alle macchinette del caffè. La proposta venne accolta con un imbarazzato crollo dell’umore generale, che tuttavia riprese pochi istanti dopo nella convinzione che il sorprendentemente frustrato responsabile di ingegneria e manutenzioni non sentisse le risatine di scherno.

Francesco ebbe la tentazione di emulare i teatrali colleghi con una violenta chiusura della porta, tuttavia comprese presto che quell’asse di legno era un’incolpevole ed in fondo utile barriera tra lui ed il mondo esterno. Aveva pertanto tutto l’interesse a mantenerla in piena forma.

Tornato al pc, si concesse un sottofondo di musica d’atmosfera per provare a concentrarsi. Il tentativo si dimostrò efficace, tanto che poté lavorare senza altre distrazioni per quasi un’ora, finché una forma di gorgonzola qualificatasi come uno stagista del team IT si materializzò all’ingresso della sua zona di quiete.

Era rotolato fin lì per segnalargli che, da un controllo sul consumo della rete aziendale, ne risultava un eccessivo utilizzo da parte sua, peraltro su siti non autorizzati dall’azienda. Francesco mostrò allo sventurato figlio dell’acne (ma non certo del deodorante) qual era la ragione di quella anomalia, ossia la riproduzione della nenia in sottofondo, facendo al contempo notare come lui stesso non avesse notato alcun rallentamento nelle attività che necessitavano della rete. Le scaglie di muffa gli risposero che loro non avevano colpa, era stato l’IT manager ha mandarle in missione insieme al corpo dello stagista che le ospitava. Il responsabile di ingegneria e manutenzioni capì che uno di quei giorni avrebbe dovuto offrire un paio di caffè al pari ruolo degli informatici, che sembrava averlo preso in antipatia per qualche ignota ragione. Liquidò pertanto il suo stagista e si costrinse a togliere il sottofondo, venendo istantaneamente proiettato nell’ambiente dell’ufficio.

Poco per volta, erano tuttavia arrivate le quattro del pomeriggio, e con esse l’uscita dal lavoro dei primi colleghi, nonché il ritiro dei superstiti nei rispettivi loculi per smaltire le email accumulate ed informarsi sui contenuti social del giorno. Francesco ebbe pertanto la possibilità di portare a compimento le incombenze più urgenti, prima di uscire dal suo sconfortevole antro per fare rientro a casa.

La calma ritrovata in quelle ultime proficue due ore di lavoro o poco più, venne sovrastata dal traffico in cui si ritrovò non appena giunse al primo incrocio. Le imprecazioni contro gli automobilisti che riteneva particolarmente meritevoli di censura per le loro scarse doti alla guida lo fecero sentire un po’ più in pace con il suo io interiore.

Questo fino a quando, giunto ad un semaforo particolarmente denso di quelle forme di umanità conservate in barattoli di metallo, sfortunatamente inveì nei confronti di un grosso esemplare di orso bruno. Quest’ultimo era così corpulento che faticò ad uscire dalla sua lattina. Francesco si vide costretto ad abbassare il suo finestrino, affinché la creatura non lo sfondasse. Cercò di mettere da parte l’orgoglio per avere salvi i connotati, scusandosi profusamente per il suo comportamento inopportuno, dovuto certamente ad una giornata storta. L’orso in tutta risposta accennò ad un budspenceriano manrovescio. Francesco si ritrasse puerilmente, provocando un ringhio di soddisfazione nell’inquietante essere che oscurava la pallida luce dei lampioni. Insultando la sua scarsa virilità, l’orso riportò la sua imponente massa verso la scatola di latta da cui era uscito.

Francesco si costrinse a darsi una calmata. Posizionò la radio su di una stazione jazz, sperando che questo lo aiutasse. Si imbatté tuttavia in un raro momento in cui le parole del commentatore americano superavano di gran lunga le note, perciò si ritrovò a spegnere la radio e a dover convivere nuovamente con i suoi pensieri.

Arrivò a casa con un desiderio irrefrenabile di infilarsi sotto alle coperte e non uscirne fino all’anno successivo. Non certo per dormire, non sarebbe mai riuscito a prendere sonno. Aveva solamente bisogno di trovare rifugio dal mondo. Incautamente, aprì sovrappensiero la cassetta della posta. Trovò qui una bolletta del gas che avrebbe potuto giustificare solo se sua moglie avesse trascorso gli ultimi due mesi sotto la doccia e con i fornelli accesi. Non era ovviamente possibile, se non altro perché lei non avrebbe mai lasciato le pentole sul fuoco incustodite, mentre per la doccia lui non si sentiva altrettanto sicuro.

All’ingresso in casa, la donna lo accolse con il volto sconvolto dalla stanchezza. Il figlio nato otto mesi prima era piuttosto vivace e poco amante del riposo, almeno per il momento. La madre stava sfruttando fino in fondo la maternità, ma per contro stava consumando quantità notevoli di energie mentali. Aspettava pertanto con ansia il rientro del marito ad ogni sera lavorativa per affidargli il fardello.

Anche quella sera per Francesco si prospettavano poche occasioni di relax, tra quel momento ed il decollo del mattino successivo verso l’ufficio. Si sporse verso la pentola in cui bolliva il condimento della pasta, che alla sua curiosità rispose scaraventandogli sulla guancia una goccia kamikaze ustionante. Davvero poco furbo da parte sua. Rinunciò ad un assaggio anticipato, non era davvero la sua giornata.

Si sedette sul divano, cercando di riprendere fiato. Sentiva che tutto il suo sistema nervoso non aveva la benché minima possibilità di rilassarsi. Se non altro, se fosse rimasto seduto ed avesse spento qualsiasi percezione del mondo che lo circondava, avrebbe evitato di peggiorare ulteriormente il suo stato di stress.

All’improvviso, un dadà emerse dal box in cui stava giocando suo figlio, rompendo la barriera sensoriale tra l’uomo e l’universo. Francesco spalancò gli occhi, ruotando lentamente la testa verso la direzione da cui era giunto l’adorabile suono. Incrociato lo sguardo con il padre, il cucciolo d’uomo ripeté l’invocazione, allungando una mano verso di lui. Non c’era alcun dubbio, il suo piccolo erede lo stava chiamando.

L’uomo sfoderò il primo sorriso della sua giornata, coprendo con un passo a trenta centimetri dal pavimento la distanza che lo separava dal box. Prese in braccio il figlio, portandolo sugli autobloccanti di gomma che rendevano più sicuro il suo gattonare per la sala. Infine, si sdraiò allegramente a terra accanto a lui.

Giocarono insieme fino all’ora di cena. I nervi si erano distesi, il fischio alle orecchie era svanito. Comprese che quella giovanissima vita di cui sua moglie gli aveva fatto dono era l’unica vera medicina per combattere i mali della vita moderna. Un giorno si sarebbe trasformato in un bazooka in grado di generare preoccupazioni aggiuntive ad ogni apertura di bocca, per il momento rappresentava semplicemente il vero senso da dare ai suoi giorni, una ventata di gioia ed orgoglio da cui farsi piacevolmente investire.

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La Vetta degli Unicorni

Non è un sogno. Sto cercando di convincermene, ma non è affatto semplice.

Accanto a me ho mia figlia, che ha compiuto uno sforzo notevole per i suoi sette anni: voleva a tutti i costi accompagnarmi in questa salita verso quella che gli abitanti chiamano tradizionalmente la Vetta degli Unicorni. In mezzo a toponimi concreti come Piana Ghiaiosa, Cima Tempesta o Lago Nuovo, un nome tanto legato al regno della fantasia mi ha sempre affascinato, ma non mi sono mai arrampicato prima fino ai millesettecento metri di questa camminata decisamente agevole ed in effetti poco interessante, perché dall’altopiano che costituisce il corpo della Vetta non si gode di una vista che non sia quella delle più alte cime circostanti. Poiché ho scoperto di poter arrivare in macchina fino al rifugio in cui mi sono fermato a dormire con mia moglie e mia figlia, e che da lì è necessario un cammino di poco più di un’ora per giungere fin dove ci troviamo in questo momento, ho voluto dare soddisfazione alla mia piccola arrampicatrice che da tempo voleva accompagnarmi in un sentiero semplice, e da ancora più a lungo sentiva il bisogno di accertarsi che in quel luogo non giungessero davvero a pascolare i leggendari cavalli alati.

Eppure…

La nostra stupefacente scoperta aveva avuto inizio con un forte getto d’aria ritmato che ci aveva improvvisamente investiti da sopra le nostre teste, poco dopo aver raggiunto l’altopiano. Alzando lo sguardo pressoché all’unisono, avevamo scorto un cavallo dotato di grandi ali mentre scendeva dolcemente dal cielo. Istintivamente indietreggiai trascinando mia figlia con me, ma lei si divincolò, per nulla spaventata dalla prospettiva di incontrare per la prima volta una delle creature che più ammirava fin da quando avevo iniziato a leggerle le prime fiabe.

Il cavallo diede alcuni poderosi colpi d’ala per rendere più lieve il suo atterraggio, appoggiando infine i quattro zoccoli con estrema delicatezza al suolo. La leggiadria di un animale così maestoso e forte mi lasciò senza parole, tanto che senza accorgermene caddi a sedere nel prato, a bocca spalancata.

Questo è il quadro che anche un modesto pittore potrebbe rendere efficacemente, se potesse osservare di nascosto la scena pressoché statica che l’altopiano sta ospitando da circa cinque minuti: l’unicorno ha un crine così bianco da costringere a distogliere lo sguardo, quando viene accarezzato dai raggi del sole, ed ha una folta criniera dorata e bocca e zoccoli color caffè a dare vivacità alla sua figura, mentre bruca serenamente l’erba di fronte a noi; mia figlia è in contemplazione estatica, destandosi per saltellare sul posto ad ogni sbuffo da parte della creatura e ad ogni sguardo con la coda dell’occhio che questa rivolge nei suoi confronti; io, padre perfettamente incapace di frapporre allo stupore che mi ha inchiodato al terreno il mio dovere di proteggere la mia piccola donna da un’eventuale minaccia, cerco disperatamente di dare un senso a ciò che sto vedendo.

La domanda che raggiunge la parte cosciente della mia mente è molto semplice: com’è possibile che nessuno abbia mai visto un unicorno? E’ stato addirittura dato il nome di questi cavalli alati alla vetta su cui ci troviamo, evidentemente qualcuno in passato deve averli visti prima di noi, anche se non è stato creduto. E’ tuttavia poco probabile che, un avvistamento dopo l’altro, nessuno dei narratori sia stato giudicato affidabile, oppure che a nessuno sia venuto in mente di fotografare quei meravigliosi animali con un telefono.

All’improvviso, realizzo che anch’io sto perdendo l’occasione di testimoniare quello spettacolo della natura, anche se dentro di me so benissimo che nutrirò forti scrupoli prima di condividere quelle immagini con qualcuno. Mi sento però in dovere di spiegare a mia moglie ciò a cui il resto del nucleo familiare ha assistito. Quando tuttavia inquadro l’unicorno, sullo schermo compaiono delle interferenze via via più forti che mi impediscono di registrare alcunché. Abbassando il telefono, mi accorgo che la creatura mi sta osservando, e mia figlia sta seguendo il suo sguardo.

«Papà, lui non vuole che lo riprendi! Lascialo in pace!»

Non è certo questo ciò che mi preoccupa. Fino ad un attimo prima, pur trattandosi di un essere solitamente associato al mondo delle fiabe, ho considerato quella meravigliosa creatura come un bizzarro ed arcaico incrocio fra un volatile di chissà quali ere ed un cavallo moderno. Ora mi ha invece dimostrato di possedere doti riproducibili dagli esseri umani soltanto con l’uso della tecnologia. Non riesco davvero a mettere ordine tra i miei pensieri, che si mescolano tra di loro come un mazzo di carte in mano ad un esperto croupier.

Mentre cerco di alzarmi più lentamente possibile, mia figlia non riesce a resistere all’eccitazione. Si avvicina all’unicorno, intenzionata ad accarezzarne il muso. Sto per intervenire, intimandole di fermarsi, ma la creatura si avvicina a lei, piegando le zampe anteriori ed abbassando la testa fino a quando le loro fronti si sfiorano. Chiudono dolcemente gli occhi, mentre mia figlia lo abbraccia e sorride, come se stesse sentendo un piacevole solletico.

All’improvviso, un nitrito infantile e tutt’altro che aggraziato rompe il silenzio dell’altopiano. L’unicorno si libera delicatamente dal contatto con le mani di mia figlia per correre verso una piccola collina dall’erba insolitamente alta per quella quota. Lo raggiungiamo, scoprendo che un puledrino con un corno appena accennato deve essersi tagliato una zampa con un ramo particolarmente secco ed appuntito. Sanguina, e la madre che compare inspiegabilmente dal prato alle sue spalle ha tutta l’aria di essere preoccupata. Il nostro amico, che con ogni probabilità è il padre, cerca di confortare il cucciolo che tuttavia non smette di lamentarsi.

Mi viene a quel punto in mente di aver visto quanto necessario per aiutare le creature. Faccio loro segno con una mano sul cuore che vorrei provvedere io a curare la ferita, sperando che mi capiscano. Mia figlia insiste per restare con loro, preoccupata, tuttavia riesco a convincerla a venire con me per aiutarmi. Accetta solo dopo aver accarezzato il puledro, ancora sofferente nonostante non si tratti di un taglio evidentemente profondo.

Torniamo poco più a valle, dove riempiamo la mia borraccia con dell’acqua di un ruscello, ma soprattutto recuperiamo qualche taglio di Erba della Madonna, una pianta che aveva attirato la mia attenzione durante la salita perché è piuttosto insolito trovarla a queste altitudini.

Raggiungiamo rapidamente l’altopiano, sperando di non scoprire che nel frattempo il metabolismo diverso dell’unicorno possa aver giocato qualche brutto scherzo. Oppure, e non me ne stupirei, che si sia trattato solo di un sogno.

No, non è stato un sogno. La piccola famiglia è ancora nascosta nell’erba, mimetizzandosi in modo così inspiegabilmente efficace da scomparire completamente alla nostra vista finché non raggiungiamo esattamente il punto in cui ricordiamo di averli lasciati. Lo sguardo dei due genitori è diffidente, ma mia figlia riesce con poche parole a tranquillizzarli. Inizio a pensare che l’unico motivo per cui pochissime persone abbiano visto in passato queste creature, sia dovuto alla necessaria presenza di almeno un bambino, fatto decisamente raro per quella quota.

Mentre mia figlia accarezza il puledro per tenerlo tranquillo, con l’acqua della borraccia pulisco il taglio, che fortunatamente non mostra segni evidenti di infezione. Applico l’Erba della Madonna alla ferita, sfruttandone le proprietà disinfettanti e stimolanti per la cicatrizzazione. A questo punto, non resta altro da fare che aspettare.

Dopo circa venti minuti, il cucciolo sembra avere ripreso il buonumore. Inizia infatti a mangiare, e poco per volta si alza e si mette a giocare con mia figlia. I due genitori sembrano sollevati, per quanto possa capire dalle loro espressioni. Ne ho la certezza quando il padre inchina la testa nella mia direzione, prima di muovere ritmicamente e poderosamente le ali per riprendere il volo. Scompare in pochi istanti dalla nostra vista, tuttavia vederlo librarsi nell’aria è stato quasi più emozionante del suo arrivo inatteso.

Il sole inizia poco per volta a calare, costringendoci a lasciare quel luogo magico. Sia mia figlia che il puledro sono tristi, ma era inevitabile che prima o poi quel momento avrebbe dovuto vivere la sua conclusione. Con un velo di tristezza e di commozione, lasciamo l’altopiano. Non facciamo in tempo a voltarci nuovamente verso di loro, che mamma unicorno ed il suo cucciolo sono scomparsi nel prato.

Decidiamo di non raccontare nulla a nessuno, nemmeno a mia moglie che ci aspetta un po’ in pensiero. Non potrebbe mai capire se non vendendo quelle magiche creature con i suoi occhi, e siamo entrambi sicuri che il regalo che ci hanno fatto oggi sia stato un’occasione unica nelle nostre vite, perciò non abbiamo modo di dimostrarle la verità di ciò che ci è accaduto. E’ però certo che il loro ricordo resterà con noi per sempre, sperando sotto sotto di avere aperto a nostra volta una piccola breccia nei loro cuori.