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Racconti brevi

Stress

Francesco percepiva che la bomba ad orologeria del suo stato di stress ticchettava con un’intensità sempre più difficile da ignorare.

Sentiva le orecchie fischiare costantemente. Era seduto in ufficio, cercando disperatamente di concentrarsi sulle sue scadenze più urgenti.

Appena fuori dalla sua porta, un gregge di pecore pascolava ininterrottamente ormai da due ore. C’era chi si spostava furiosamente tra uffici, bagni, area fumatori e zona break, giusto per dare l’idea di essere sommerso dal lavoro. C’era ci preferiva belare fastidiosamente, inscenando riunioni in presenza o al telefono nel corridoio: persone ottenebrate dalla malsana idea che risparmiare al collega di scrivania il supplizio della loro voce, per poi tediare con la stessa cacofonia un intero blocco di uffici, fosse in effetti una scelta responsabile. C’erano infine i cani da pastore che di tanto in tanto iniziavano a ringhiare ed a latrare al telefono dopo aver ingurgitato una sigaretta, sbattendo la porta del loro ufficio che aveva l’ingrato e fallimentare compito di provare a contenerne la voce, volutamente mantenuta su volumi altissimi.

Nulla di strano, normale vita da impiegati.

Il problema per Francesco era che il suo stato emotivo gli impediva di ignorare qualsiasi stimolo ricevessero le sue orecchie, dal più fastidioso a quello più innocuo.

Quando sentì una fragorosa risata scoppiare a pochi passi dal suo cranio prossimo alla deflagrazione, non resse oltre ed andò a richiamare i colleghi. Si trattava di un gesto per lui inusuale: aveva sempre evitato di scontrarsi con altre persone nelle sue esperienze lavorative, quale che fosse il motivo del disaccordo. Aveva infatti colto maggiori risultati affrontando ogni situazione con il dialogo, accompagnato da una generosa porzione di sorrisi.

Il tempo per affrontare i problemi con positività era tuttavia giunto al termine, perciò si intromise nella piacevole conversazione che stava avendo luogo a tre metri dalla targhetta con il suo nome, chiedendo a quei perplessi esseri umani con il residuo di cortesia che gli restava di trasferire il momento di goliardia di fronte alle macchinette del caffè. La proposta venne accolta con un imbarazzato crollo dell’umore generale, che tuttavia riprese pochi istanti dopo nella convinzione che il sorprendentemente frustrato responsabile di ingegneria e manutenzioni non sentisse le risatine di scherno.

Francesco ebbe la tentazione di emulare i teatrali colleghi con una violenta chiusura della porta, tuttavia comprese presto che quell’asse di legno era un’incolpevole ed in fondo utile barriera tra lui ed il mondo esterno. Aveva pertanto tutto l’interesse a mantenerla in piena forma.

Tornato al pc, si concesse un sottofondo di musica d’atmosfera per provare a concentrarsi. Il tentativo si dimostrò efficace, tanto che poté lavorare senza altre distrazioni per quasi un’ora, finché una forma di gorgonzola qualificatasi come uno stagista del team IT si materializzò all’ingresso della sua zona di quiete.

Era rotolato fin lì per segnalargli che, da un controllo sul consumo della rete aziendale, ne risultava un eccessivo utilizzo da parte sua, peraltro su siti non autorizzati dall’azienda. Francesco mostrò allo sventurato figlio dell’acne (ma non certo del deodorante) qual era la ragione di quella anomalia, ossia la riproduzione della nenia in sottofondo, facendo al contempo notare come lui stesso non avesse notato alcun rallentamento nelle attività che necessitavano della rete. Le scaglie di muffa gli risposero che loro non avevano colpa, era stato l’IT manager ha mandarle in missione insieme al corpo dello stagista che le ospitava. Il responsabile di ingegneria e manutenzioni capì che uno di quei giorni avrebbe dovuto offrire un paio di caffè al pari ruolo degli informatici, che sembrava averlo preso in antipatia per qualche ignota ragione. Liquidò pertanto il suo stagista e si costrinse a togliere il sottofondo, venendo istantaneamente proiettato nell’ambiente dell’ufficio.

Poco per volta, erano tuttavia arrivate le quattro del pomeriggio, e con esse l’uscita dal lavoro dei primi colleghi, nonché il ritiro dei superstiti nei rispettivi loculi per smaltire le email accumulate ed informarsi sui contenuti social del giorno. Francesco ebbe pertanto la possibilità di portare a compimento le incombenze più urgenti, prima di uscire dal suo sconfortevole antro per fare rientro a casa.

La calma ritrovata in quelle ultime proficue due ore di lavoro o poco più, venne sovrastata dal traffico in cui si ritrovò non appena giunse al primo incrocio. Le imprecazioni contro gli automobilisti che riteneva particolarmente meritevoli di censura per le loro scarse doti alla guida lo fecero sentire un po’ più in pace con il suo io interiore.

Questo fino a quando, giunto ad un semaforo particolarmente denso di quelle forme di umanità conservate in barattoli di metallo, sfortunatamente inveì nei confronti di un grosso esemplare di orso bruno. Quest’ultimo era così corpulento che faticò ad uscire dalla sua lattina. Francesco si vide costretto ad abbassare il suo finestrino, affinché la creatura non lo sfondasse. Cercò di mettere da parte l’orgoglio per avere salvi i connotati, scusandosi profusamente per il suo comportamento inopportuno, dovuto certamente ad una giornata storta. L’orso in tutta risposta accennò ad un budspenceriano manrovescio. Francesco si ritrasse puerilmente, provocando un ringhio di soddisfazione nell’inquietante essere che oscurava la pallida luce dei lampioni. Insultando la sua scarsa virilità, l’orso riportò la sua imponente massa verso la scatola di latta da cui era uscito.

Francesco si costrinse a darsi una calmata. Posizionò la radio su di una stazione jazz, sperando che questo lo aiutasse. Si imbatté tuttavia in un raro momento in cui le parole del commentatore americano superavano di gran lunga le note, perciò si ritrovò a spegnere la radio e a dover convivere nuovamente con i suoi pensieri.

Arrivò a casa con un desiderio irrefrenabile di infilarsi sotto alle coperte e non uscirne fino all’anno successivo. Non certo per dormire, non sarebbe mai riuscito a prendere sonno. Aveva solamente bisogno di trovare rifugio dal mondo. Incautamente, aprì sovrappensiero la cassetta della posta. Trovò qui una bolletta del gas che avrebbe potuto giustificare solo se sua moglie avesse trascorso gli ultimi due mesi sotto la doccia e con i fornelli accesi. Non era ovviamente possibile, se non altro perché lei non avrebbe mai lasciato le pentole sul fuoco incustodite, mentre per la doccia lui non si sentiva altrettanto sicuro.

All’ingresso in casa, la donna lo accolse con il volto sconvolto dalla stanchezza. Il figlio nato otto mesi prima era piuttosto vivace e poco amante del riposo, almeno per il momento. La madre stava sfruttando fino in fondo la maternità, ma per contro stava consumando quantità notevoli di energie mentali. Aspettava pertanto con ansia il rientro del marito ad ogni sera lavorativa per affidargli il fardello.

Anche quella sera per Francesco si prospettavano poche occasioni di relax, tra quel momento ed il decollo del mattino successivo verso l’ufficio. Si sporse verso la pentola in cui bolliva il condimento della pasta, che alla sua curiosità rispose scaraventandogli sulla guancia una goccia kamikaze ustionante. Davvero poco furbo da parte sua. Rinunciò ad un assaggio anticipato, non era davvero la sua giornata.

Si sedette sul divano, cercando di riprendere fiato. Sentiva che tutto il suo sistema nervoso non aveva la benché minima possibilità di rilassarsi. Se non altro, se fosse rimasto seduto ed avesse spento qualsiasi percezione del mondo che lo circondava, avrebbe evitato di peggiorare ulteriormente il suo stato di stress.

All’improvviso, un dadà emerse dal box in cui stava giocando suo figlio, rompendo la barriera sensoriale tra l’uomo e l’universo. Francesco spalancò gli occhi, ruotando lentamente la testa verso la direzione da cui era giunto l’adorabile suono. Incrociato lo sguardo con il padre, il cucciolo d’uomo ripeté l’invocazione, allungando una mano verso di lui. Non c’era alcun dubbio, il suo piccolo erede lo stava chiamando.

L’uomo sfoderò il primo sorriso della sua giornata, coprendo con un passo a trenta centimetri dal pavimento la distanza che lo separava dal box. Prese in braccio il figlio, portandolo sugli autobloccanti di gomma che rendevano più sicuro il suo gattonare per la sala. Infine, si sdraiò allegramente a terra accanto a lui.

Giocarono insieme fino all’ora di cena. I nervi si erano distesi, il fischio alle orecchie era svanito. Comprese che quella giovanissima vita di cui sua moglie gli aveva fatto dono era l’unica vera medicina per combattere i mali della vita moderna. Un giorno si sarebbe trasformato in un bazooka in grado di generare preoccupazioni aggiuntive ad ogni apertura di bocca, per il momento rappresentava semplicemente il vero senso da dare ai suoi giorni, una ventata di gioia ed orgoglio da cui farsi piacevolmente investire.

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La Vetta degli Unicorni

Non è un sogno. Sto cercando di convincermene, ma non è affatto semplice.

Accanto a me ho mia figlia, che ha compiuto uno sforzo notevole per i suoi sette anni: voleva a tutti i costi accompagnarmi in questa salita verso quella che gli abitanti chiamano tradizionalmente la Vetta degli Unicorni. In mezzo a toponimi concreti come Piana Ghiaiosa, Cima Tempesta o Lago Nuovo, un nome tanto legato al regno della fantasia mi ha sempre affascinato, ma non mi sono mai arrampicato prima fino ai millesettecento metri di questa camminata decisamente agevole ed in effetti poco interessante, perché dall’altopiano che costituisce il corpo della Vetta non si gode di una vista che non sia quella delle più alte cime circostanti. Poiché ho scoperto di poter arrivare in macchina fino al rifugio in cui mi sono fermato a dormire con mia moglie e mia figlia, e che da lì è necessario un cammino di poco più di un’ora per giungere fin dove ci troviamo in questo momento, ho voluto dare soddisfazione alla mia piccola arrampicatrice che da tempo voleva accompagnarmi in un sentiero semplice, e da ancora più a lungo sentiva il bisogno di accertarsi che in quel luogo non giungessero davvero a pascolare i leggendari cavalli alati.

Eppure…

La nostra stupefacente scoperta aveva avuto inizio con un forte getto d’aria ritmato che ci aveva improvvisamente investiti da sopra le nostre teste, poco dopo aver raggiunto l’altopiano. Alzando lo sguardo pressoché all’unisono, avevamo scorto un cavallo dotato di grandi ali mentre scendeva dolcemente dal cielo. Istintivamente indietreggiai trascinando mia figlia con me, ma lei si divincolò, per nulla spaventata dalla prospettiva di incontrare per la prima volta una delle creature che più ammirava fin da quando avevo iniziato a leggerle le prime fiabe.

Il cavallo diede alcuni poderosi colpi d’ala per rendere più lieve il suo atterraggio, appoggiando infine i quattro zoccoli con estrema delicatezza al suolo. La leggiadria di un animale così maestoso e forte mi lasciò senza parole, tanto che senza accorgermene caddi a sedere nel prato, a bocca spalancata.

Questo è il quadro che anche un modesto pittore potrebbe rendere efficacemente, se potesse osservare di nascosto la scena pressoché statica che l’altopiano sta ospitando da circa cinque minuti: l’unicorno ha un crine così bianco da costringere a distogliere lo sguardo, quando viene accarezzato dai raggi del sole, ed ha una folta criniera dorata e bocca e zoccoli color caffè a dare vivacità alla sua figura, mentre bruca serenamente l’erba di fronte a noi; mia figlia è in contemplazione estatica, destandosi per saltellare sul posto ad ogni sbuffo da parte della creatura e ad ogni sguardo con la coda dell’occhio che questa rivolge nei suoi confronti; io, padre perfettamente incapace di frapporre allo stupore che mi ha inchiodato al terreno il mio dovere di proteggere la mia piccola donna da un’eventuale minaccia, cerco disperatamente di dare un senso a ciò che sto vedendo.

La domanda che raggiunge la parte cosciente della mia mente è molto semplice: com’è possibile che nessuno abbia mai visto un unicorno? E’ stato addirittura dato il nome di questi cavalli alati alla vetta su cui ci troviamo, evidentemente qualcuno in passato deve averli visti prima di noi, anche se non è stato creduto. E’ tuttavia poco probabile che, un avvistamento dopo l’altro, nessuno dei narratori sia stato giudicato affidabile, oppure che a nessuno sia venuto in mente di fotografare quei meravigliosi animali con un telefono.

All’improvviso, realizzo che anch’io sto perdendo l’occasione di testimoniare quello spettacolo della natura, anche se dentro di me so benissimo che nutrirò forti scrupoli prima di condividere quelle immagini con qualcuno. Mi sento però in dovere di spiegare a mia moglie ciò a cui il resto del nucleo familiare ha assistito. Quando tuttavia inquadro l’unicorno, sullo schermo compaiono delle interferenze via via più forti che mi impediscono di registrare alcunché. Abbassando il telefono, mi accorgo che la creatura mi sta osservando, e mia figlia sta seguendo il suo sguardo.

«Papà, lui non vuole che lo riprendi! Lascialo in pace!»

Non è certo questo ciò che mi preoccupa. Fino ad un attimo prima, pur trattandosi di un essere solitamente associato al mondo delle fiabe, ho considerato quella meravigliosa creatura come un bizzarro ed arcaico incrocio fra un volatile di chissà quali ere ed un cavallo moderno. Ora mi ha invece dimostrato di possedere doti riproducibili dagli esseri umani soltanto con l’uso della tecnologia. Non riesco davvero a mettere ordine tra i miei pensieri, che si mescolano tra di loro come un mazzo di carte in mano ad un esperto croupier.

Mentre cerco di alzarmi più lentamente possibile, mia figlia non riesce a resistere all’eccitazione. Si avvicina all’unicorno, intenzionata ad accarezzarne il muso. Sto per intervenire, intimandole di fermarsi, ma la creatura si avvicina a lei, piegando le zampe anteriori ed abbassando la testa fino a quando le loro fronti si sfiorano. Chiudono dolcemente gli occhi, mentre mia figlia lo abbraccia e sorride, come se stesse sentendo un piacevole solletico.

All’improvviso, un nitrito infantile e tutt’altro che aggraziato rompe il silenzio dell’altopiano. L’unicorno si libera delicatamente dal contatto con le mani di mia figlia per correre verso una piccola collina dall’erba insolitamente alta per quella quota. Lo raggiungiamo, scoprendo che un puledrino con un corno appena accennato deve essersi tagliato una zampa con un ramo particolarmente secco ed appuntito. Sanguina, e la madre che compare inspiegabilmente dal prato alle sue spalle ha tutta l’aria di essere preoccupata. Il nostro amico, che con ogni probabilità è il padre, cerca di confortare il cucciolo che tuttavia non smette di lamentarsi.

Mi viene a quel punto in mente di aver visto quanto necessario per aiutare le creature. Faccio loro segno con una mano sul cuore che vorrei provvedere io a curare la ferita, sperando che mi capiscano. Mia figlia insiste per restare con loro, preoccupata, tuttavia riesco a convincerla a venire con me per aiutarmi. Accetta solo dopo aver accarezzato il puledro, ancora sofferente nonostante non si tratti di un taglio evidentemente profondo.

Torniamo poco più a valle, dove riempiamo la mia borraccia con dell’acqua di un ruscello, ma soprattutto recuperiamo qualche taglio di Erba della Madonna, una pianta che aveva attirato la mia attenzione durante la salita perché è piuttosto insolito trovarla a queste altitudini.

Raggiungiamo rapidamente l’altopiano, sperando di non scoprire che nel frattempo il metabolismo diverso dell’unicorno possa aver giocato qualche brutto scherzo. Oppure, e non me ne stupirei, che si sia trattato solo di un sogno.

No, non è stato un sogno. La piccola famiglia è ancora nascosta nell’erba, mimetizzandosi in modo così inspiegabilmente efficace da scomparire completamente alla nostra vista finché non raggiungiamo esattamente il punto in cui ricordiamo di averli lasciati. Lo sguardo dei due genitori è diffidente, ma mia figlia riesce con poche parole a tranquillizzarli. Inizio a pensare che l’unico motivo per cui pochissime persone abbiano visto in passato queste creature, sia dovuto alla necessaria presenza di almeno un bambino, fatto decisamente raro per quella quota.

Mentre mia figlia accarezza il puledro per tenerlo tranquillo, con l’acqua della borraccia pulisco il taglio, che fortunatamente non mostra segni evidenti di infezione. Applico l’Erba della Madonna alla ferita, sfruttandone le proprietà disinfettanti e stimolanti per la cicatrizzazione. A questo punto, non resta altro da fare che aspettare.

Dopo circa venti minuti, il cucciolo sembra avere ripreso il buonumore. Inizia infatti a mangiare, e poco per volta si alza e si mette a giocare con mia figlia. I due genitori sembrano sollevati, per quanto possa capire dalle loro espressioni. Ne ho la certezza quando il padre inchina la testa nella mia direzione, prima di muovere ritmicamente e poderosamente le ali per riprendere il volo. Scompare in pochi istanti dalla nostra vista, tuttavia vederlo librarsi nell’aria è stato quasi più emozionante del suo arrivo inatteso.

Il sole inizia poco per volta a calare, costringendoci a lasciare quel luogo magico. Sia mia figlia che il puledro sono tristi, ma era inevitabile che prima o poi quel momento avrebbe dovuto vivere la sua conclusione. Con un velo di tristezza e di commozione, lasciamo l’altopiano. Non facciamo in tempo a voltarci nuovamente verso di loro, che mamma unicorno ed il suo cucciolo sono scomparsi nel prato.

Decidiamo di non raccontare nulla a nessuno, nemmeno a mia moglie che ci aspetta un po’ in pensiero. Non potrebbe mai capire se non vendendo quelle magiche creature con i suoi occhi, e siamo entrambi sicuri che il regalo che ci hanno fatto oggi sia stato un’occasione unica nelle nostre vite, perciò non abbiamo modo di dimostrarle la verità di ciò che ci è accaduto. E’ però certo che il loro ricordo resterà con noi per sempre, sperando sotto sotto di avere aperto a nostra volta una piccola breccia nei loro cuori.

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Nella notte di Edimburgo

Perché tre ragazzi italiani si aggirano per il centro storico di Edimburgo in piena notte, con fare circospetto?

Domanda ancora più importante: non erano in quattro ad inizio serata? Dov’è finito Dante? Certo, se rispondessi ora il racconto sarebbe già finito, perciò un poco di pazienza.

Un piccolo passo indietro. Fausto, ventiduenne studente di economia e commercio, è solito organizzare minitour per seguire la nazionale italiana di rugby. Questo sport lo ha sempre affascinato, pur non avendolo mai praticato a causa di un fisico poco predisposto per lo sport, così ha deciso di combinare la passione per questa disciplina con la curiosità nei confronti delle capitali europee, regalandosi qualche viaggio low cost in compagnia di alcuni selezionati amici.

Per la trasferta nella capitale scozzese si sono uniti a lui Gualtiero, suo compagno di studi, un ragazzone di quasi due metri che a rugby ha giocato veramente, ma con modesti risultati, anche a causa di un carattere piuttosto instabile; Stefano, che più che dallo sport è attratto dallo scotch e dai pub in generale; infine, il già citato Dante, ragazzo schivo che nessuno dei primi tre conosce veramente, in quanto si è unito al gruppo dopo un contatto sui social.

Il quartetto è atterrato vicino a Glasgow, per poi spostarsi nella capitale scozzese via rotaia. Sarebbe stato interessante filmare la loro uscita dalla stazione: giacche, cappellini di lana, guanti e zaini in spalla, pronti per un’escursione siberiana mentre i giovani scozzesi affrontavano la classica pioggerella di traverso con leggere camicie a maniche corte.

I quattro avventurieri avevano quindi preso alloggio presso un ostello in una traversa di Canongate, la parte bassa ed orientale del Royal Mile che dal colle del castello porta alla sede del parlamento scozzese. Avevano girato per la città per tre giorni e due notti, visitando ciò che il tempo a disposizione aveva loro consentito e godendo di un insperato pareggio da parte della nazionale di rugby. Erano quindi riusciti a concedersi anche una passeggiata a Holyrood Park, la grande tenuta reale a due passi dal centro.

Poco per volta, il gruppetto si era consolidato ed anche Dante era entrato nelle conversazioni, mostrando una passione per il nozionismo che in quei giorni di curiosità era risultata particolarmente piacevole, soprattutto perché quel ragazzo con l’accento bresciano così marcato da sembrare finto pareva sapere proprio tutto della storia scozzese. Fausto inizialmente aveva provato un po’ di gelosia, ma poi aveva finito per appassionarsi a sua volta alle curiosità sciorinate dall’ultimo arrivato nel gruppo.

Erano quindi giunti all’ultima sera, perlomeno per quella loro prima tappa. Il giorno dopo si sarebbero spostati a Glasgow, per poi partire alla volta dell’Italia la mattina del giorno successivo.

Trascorsero l’ultima sera ad Edimburgo chiudendosi in un pub per gustare il prelibato haggis, annaffiato con un paio di pinte a testa. Mentre Dante narrava la storia di quel piatto contadino, povero ma dalla lunga preparazione e cottura, consistente in un trito di interiora di pecora con farina d’avena cotto a lungo nello stomaco, Fausto lo ascoltava interessato ma non osava avvicinarsi a quella ricetta tradizionale, limitandosi ad un più affidabile hamburger. Nel frattempo, Stefano e Gualtiero avevano già ordinato il terzo giro di pinte per salutare adeguatamente la capitale di Scozia.

I ragazzi uscirono dal pub quando non erano ancora le otto di sera. Purtroppo gli orari del posto erano molto anticipati rispetto all’Italia, perciò rimasero con parecchia voglia di impegnare la serata ma con scarse alternative su come trascorrerla. I tre che si conoscevano da più tempo si chiusero in cerchio per scaldarsi reciprocamente e decidere cosa fare, mentre Dante rispondeva ad una telefonata in una lingua che con il dialetto bresciano non sembrava avere poi molto a che spartire.

Quando Gualtiero ruotò il cranio dalla sua posizione sopraelevata, non poté fare a meno di richiamare l’attenzione dei due amici: di Dante non c’era più traccia. Si guardarono intorno e vagarano nell’immediato circondario per qualche minuto, ma nulla. Stefano si spostò con passo spedito in direzione dell’ostello, per raggiungerlo se qualche ragione legata probabilmente all’haggis lo avesse spinto a rientrare urgentemente, ma il suo tentativo fu vano, con l’aggravante di dover ripercorrere di nuovo Canongate in salita, sforzo che lo costrinse alla quarta pinta in uno dei pochi pub ancora aperti.

Ed eccoci tornati al punto di partenza. Per quanto i tre ragazzi non conoscano a fondo Dante, la sua scomparsa improvvisa è misteriosa e preoccupante. Qualora si tratti di uno scherzo, probabilmente il giovane si ritroverà investito da un treno in corsa di nome Gualtiero, andando a ripulire la pavimentazione di High Street con il giaccone blu elettrico che proprio non riuscirebbe a passare inosservato se anche l’ultimo arrivato nella compagnia lo volesse.

«No, non lo farebbe mai. Non avrebbe senso, deve essere successo qualcosa.»

Essendo l’organizzatore, Fausto si agita più degli altri due, sia perché Gualtiero e Stefano sono parzialmente sedati dai giri di pinte in più, sia perché lui si sente responsabile per ciò che potrebbe essere accaduto a Dante.

Non volendo svegliare mezza Edimburgo, i tre giovani italiani si aggirano con fare circospetto per le strade della città vecchia. Bisbigliano più forte che possono il nome del loro amico, senza ricevere risposta se non da qualche cane randagio con scarso spirito di compartecipazione nei confronti del loro timore.

Iniziano quindi a trovare per terra delle carte di una caramella italiana che, nel loro piccolo gruppo, solo Dante aveva tenuto con sé durante il viaggio. Che il ragazzo abbia lasciato una pista? Si tratta di uno scherzo, oppure di una richiesta di aiuto? O forse l’haggis lo ha semplicemente spinto ad esaurire in poco tempo la sua scorta di mentine?

Quale che sia la ragione, non c’è motivo per cui i tre non dovrebbero seguire la pista. Cercando di non farsi notare, desiderio difficile da applicare considerato che stanno ora praticamente correndo verso la vetta della rocca, gli italiani in trasferta raggiungono la spianata di fronte all’ingresso del castello. Hanno già visitato la struttura due giorni prima, sanno perfettamente che, anche se solo per formalità, quel luogo è presidiato notte e giorno dalle guardie. Si aspettano pertanto di vedere Dante sbucare da un momento all’altro, pungolato alla schiena da un militare, o quantomeno di vedere le tracce deviare in un’altra direzione. Meglio se lontano dalla rupe, concordano tacitamente.

Con loro stupore, l’infinito sciame di cartacce arriva fino al cancello chiuso. Sotto lo sguardo di un militare si accorgono sgomenti che le tracce vanno oltre le sbarre: come può aver fatto il loro amico ad entrare, per giunta proprio di fronte alla guardia?

Provano inutilmente ad interrogare il marmoreo militare. Decidono allora di dover creare un diversivo per provare ad entrare, anche se un’altra forma di buonsenso avrebbe potuto essere quella di attendere il loro amico lì nella pur fredda e ventosa spianata: per quanto molesti potessero essere stati gli effetti della cena, prima o poi sarebbe rinsavito, oppure sarebbe stato cacciato e rimandato esattamente dove loro lo attendevano.

Anche se Gualtiero tenta di imporre a modo suo l’ipotesi dell’attesa, alla fine è proprio lui a simulare un malore proprio di fronte al soldato della guardia, che a quel punto perde la sua staticità e si piega in suo soccorso. E’ il momento: i suoi due compagni possono entrare, mentre il militare decide che il corpulento italiano necessiti di un vigoroso massaggio cardiaco nonostante il suo cuore sia evidentemente funzionante.

Fausto e Stefano si precipitano all’interno. Le carte di caramella all’improvviso si interrompono, tuttavia voltato un angolo i due giovani trovano un foglio di carta manoscritto in italiano: “Svelti, mi conducono alle segrete! Mi vogliono tenere prigioniero!”

Entrambi gli amici sono convinti di conoscere la strada verso le prigioni, rendendosi invece presto conto di non avere la benché minima idea di dove debbano dirigersi. Sempre indecisi se considerare quello che sta loro accadendo come uno scherzo o la prova della follia che ha improvvisamente ammorbato Dante, trovano un’addetta alle pulizie, che molto gentilmente indica loro la direzione corretta. Quando sta per mettersi ad urlare per richiamare le guardie, avendo realizzato come i due italiani stonino tra le mura di pietra a quell’ora della sera, Stefano si trova costretto a baciarla appassionatamente, promettendo alla donna il bis nel caso in cui terrà per sé il loro incontro.

Proseguono spediti nelle fioche luci di servizio del castello. Una cancellata sbarra loro il passo, all’ingresso delle prigioni. Sentendo la meta vicina, iniziano a richiamare Dante, sperando che sia in grado di rispondere per rassicurarli sul fatto di essere in salute. Nessuna risposta, se non il leggero ululato del vento tra le pietre.

Gualtiero li raggiunge proprio mentre stanno cercando di scassinare la serratura. Stefano e Fausto hanno un cenno d’intesa, quindi iniziano a provocare il massiccio amico con insulti del tutto gratuiti, a cui quest’ultimo risponde fiondandosi con tutta la sua forza contro gli amici e, conseguentemente, contro le sbarre che cedono di schianto.

I tre italiani restano ammutoliti. Il rumore che hanno sentito deve aver svegliato mezza Edimburgo, inoltre la donna che si occupava delle pulizie e la nuova guardia che ha dato il cambio a quella che aveva rianimato Gualtiero, che aveva approfittato della sostituzione per entrare, dovevano per forza aver sentito il colpo. Eppure, nulla accade. Nessun grido che intimi loro di alzare le mani, in attesa delle forze dell’ordine. Quella serata si sta trasformando in un’esperienza sempre più assurda e priva di alcuna logica.

I tre giovani avanzano tra le celle. Sono ovviamente tutte vuote. Si aspettano di trovare all’improvviso il loro quarto elemento che, frastornato da chissà quale intossicazione, deve essersi chiuso dietro le sbarre da solo.

«Fermi tutti, aspettate: cos’è quell’ombra?»

Fausto inizia a tremare, indicando il profilo scuro di un corpo sdraiato a terra che esce da una cella, pochi metri oltre dove si trovano in quel momento.

«Forse è lui ed è crollato a dormire», prova a suggerire Gualtiero.

Stefano, determinato a scoprire la verità su quello che sta accadendo, accelera il passo e si avvicina alle sbarre. I due amici lo vedono fermarsi all’improvviso, le mani alzate sopra la testa ed un’espressione di terrore dipinta in volto.

«Ste’, cos’hai visto?»

Fausto, tremando come una foglia, si sforza di coprire i pochi passi che lo separano dall’amico nel minor tempo possibile, e con lui Gualtiero.

«No! Dante!»

L’urlo disperato unisce entrambi, arrivati alle spalle dell’amico più coraggioso che chiude pietosamente gli occhi alla vista del loro nuovo compagno di viaggio riverso al suolo, con un’espressione di terrore dipinta su di un volto immobilizzato dall’eterna fine.

Un fuoco fatuo emerge dalla schiena dello sventurato ragazzo, che i tre compagni di viaggio cercano di raggiungere forzando inutilmente le sbarre della piccola cella. E’ decisamente presto per quel singolare fenomeno, a meno che la fine di Dante non sia giunta molto prima di quanto loro pensino.

Un alito di nebbia risale prima delicatamente, quindi in modo sempre più impetuoso ad avvolgere la fiammella, sconvolgendo i corpi e le menti dei tre giovani italiani: ha il volto del loro amico scomparso!

«Sono lo spirito di Angus McDonald, un uomo che ha perso la vita in questa prigione quattro secoli fa. Amavo la mia terra, che pure è stata crudele con me, e da allora tramando ad ingenui turisti come voi le tradizioni del mio popolo. Ma ora fuggite, presto! Le tenebre che ho fatto cadere sul castello non dureranno ancora a lungo, tra pochi istanti le guardie si accorgeranno di voi.»

La risata spettrale che emerge da una profondità indescrivibile, certo non da quel corpo riverso al suolo, scuote le membra dei tre italiani a sufficienza da convincerli ad accogliere il consiglio dello spirito.

Scappano a gambe levate. Rallentano solo in parte il passo una volta usciti dal castello, e si fermano veramente quando sono nella loro stanza dell’ostello.

Faticano a riprendere fiato, ma soprattutto a dare un senso a quello che hanno visto. Si guardano intorno: gli oggetti di Dante sono scomparsi; il suo letto, che quella mattina era in disordine, non sembra essere stato utilizzato negli ultimi giorni; accendendo i loro telefoni, non trovano prove della presenza di Dante in nessuna delle foto scattate dalla partenza dall’Italia, fino a quel momento.

Non parleranno più fino al giorno successivo, e nulla di significativo uscirà dalle loro bocche finché non saranno di nuovo a casa. Nessuna persona che li abbia incrociati (personale dell’ostello, parenti che li hanno accompagnati in aeroporto all’andata, gestori dei pub di Edimburgo intervistati in fretta prima di riprendere il treno per Glasgow) ricorda la presenza di un quarto elemento.

Eppure, quei tre ragazzi sono e saranno sempre certi del contrario. Un giorno troveranno i riferimenti nelle pagine di storia a quell’uomo ingiustamente incarcerato e lasciato morire di stenti. Torneranno in Scozia, si avvicineranno a quello che un tempo era stato il suo luogo di riposo, e con estrema e razionale umiltà, ripensando a tutti i suoi racconti ed alla passione che impiegava per trasmetterli, diranno semplicemente:

«Tapadh leat.» Grazie.

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Rain in New York

Hannah uscì dal The MAve con una certa fretta. Aveva un colloquio di lavoro mezz’ora più tardi sulla 10th Street, era perciò perfettamente in orario. Il problema era rappresentato dalla pioggia che scendeva a gocce piccole ma molto fitte, rendendo conseguentemente imprevedibile il traffico di Manhattan.

Se non fosse stata l’occasione della sua vita, il lavoro per cui si preparava da sempre nella città in cui aveva sempre sognato di vivere, non si sarebbe dannata l’anima per prendere un taxi al volo: avrebbe atteso che ne arrivasse uno chiamato dall’albergo. Si trattava invece esattamente del suo grande momento, e non avrebbe permesso che quella pioggia primaverile glielo rubasse.

Aveva portato con sé un ombrello abbastanza grande da coprirla a sufficienza anche in caso di leggero vento, e l’idea non sarebbe stata malvagia, non fosse stato per la pessima scelta di affondare una scarpa in una pozzanghera nascosta nel marciapiede. Iniziava ad innervosirsi, e non andava affatto bene: aveva un colloquio, doveva sforzarsi di mantenere la calma e, soprattutto, la sua proverbiale positività. Chiuse gli occhi per un istante, respirando a fondo per ritrovare il controllo.

Quando li riaprì, vide un taxi decollare davanti ai suoi occhi. Aveva appena lasciato proprio di fronte al The MAve due ragazzi, probabilmente europei. Era certa che i due giovani non avessero lasciato alcuna mancia, perché l’autista era ripartito con il volto tipico di chi sa di essersi fatto fregare. Hannah alzò disperatamente la mano per farsi notare, ma l’uomo aveva evidentemente la testa altrove e non se ne accorse.

La buona sorte iniziò tuttavia a soffiare nella sua direzione, come una piacevole brezza in grado di spingere via quella sensazione di fresca umidità che stava penetrando in lei. L’ospite di un altro taxi doveva infatti averla vista mentre agitava il braccio, e soprattutto mentre scrollava frustrata l’ombrello finendo per bagnarsi il soprabito. Chiese pertanto all’autista di fermarsi per capire se lei andasse nella sua stessa direzione.

«10th Street», disse Hannah con un timido alito di speranza. Il taxista si voltò verso il suo passeggero, in cerca di una conferma.

«Va bene, salga pure, faremo una piccola deviazione ma non ho molta fretta. Non direi la stessa cosa di lei.»

La donna si accomodò sul sedile posteriore, a fianco del suo cortese ospite: «Hannah, piacere. Sì, effettivamente sono un po’ di corsa. In realtà ho ancora tempo per arrivare al mio appuntamento, ma avendo un colloquio di lavoro importante non vorrei correre rischi, con questo traffico.»

«Michael, piacere. Ha ragione, non si può mai sapere, con questa pioggia è difficile spostarsi in macchina. Io in effetti preferirei andare a piedi, ma devo andare vicino a Zuccotti Park, arriverei completamente bagnato.»

Hannah si mostrò sorpresa: «Davvero preferirebbe camminare sotto la pioggia?»

«Senza alcun dubbio. La trovo estremamente rilassante. I rumori della città sono attutiti, il caos quasi scompare. Passeggiando per Manhattan in una giornata di pioggia, sotto il mio ombrello, riesco a mettere a frutto le mie idee più di quanto non faccia in una mezza giornata trascorsa in ufficio.»

«Devo dire che non l’avevo mai pensata in questi termini. Potrebbe avere ragione.»

Entrambi pensarono di avere incontrato una persona sorprendentemente affascinante, e che quella pur breve compagnia avrebbe alleviato le preoccupazioni delle loro rispettive giornate. La loro reciproca conoscenza finì quando si lasciarono sulla 10th Street, luogo del colloquio di Hannah. Che per dovere di cronaca, si concluse positivamente, offrendo alla ragazza l’occasione della sua vita.

Trascorsero le stagioni, e gli anni con esse. Dieci, per la precisione, a partire da quella fresca e piovosa mattina newyorkese. Michael aveva nel frattempo sposato una donna poco più grande di lui. Lei aveva deciso che il loro matrimonio fosse indispensabile. Lei aveva voluto il primo figlio, senza che Michael avesse una reale ragione per opporvisi. Sulla secondogenita, in effetti, ci furono invece diverse discussioni, se non altro perché venne al mondo con l’ingrato compito di rinsaldare un rapporto che si era rapidamente logorato. L’ignara bambina fallì, ed il divorzio giunse senza lo stupore di parenti o amici.

Hannah, invece, si era dedicata anima e corpo al suo lavoro. Poco importa di cosa si tratti, in fondo è più importante sapere che dopo dieci anni lo viveva ancora con l’entusiasmo del primo giorno. Aveva nel mentre attraversato un paio di relazioni importanti, finite con due grosse delusioni dovute alla consapevolezza di avere giudicato male i suoi partner. Aveva cercato uomini dal carattere forte, per sostituire inconsciamente il padre che aveva rappresentato la figura più importante nella sua vita fuori da New York, ma la verità era che solo un uomo intelligente e sensibile avrebbe potuto capirla fino in fondo, completarla e renderla felice. In cuor suo non aveva mai dimenticato il suo ospite gentile del taxi di fronte al The MAve, idealizzandone il ricordo per puro piacere di struggersi al pensiero di incontrare un uomo come lui, senza il rischio di scoprire che, in fondo, anche quel Michael non avrebbe fatto altro che deluderla.

Così, in effetti, non fu.

Si incontrarono nuovamente durante un giorno di pioggia. Non fu un caso, semplicemente perché entrambi stavano passeggiando piacevolmente lungo Madison Avenue, riordinando i loro pensieri in un sabato mattina di primavera. Nonostante fossero trascorsi ben dieci anni, si riconobbero quasi immediatamente, alzando gli occhi dal marciapiede.

«Hannah, giusto? Ne è passato di tempo. Vedo che ha deciso di accogliere il mio suggerimento sulla pioggia.»

«Effettivamente, sono ormai anni che l’ho fatto, ad eccezione dei periodi in cui alcuni sciocchi ragazzi con cui mi sono accompagnata hanno tenuto a farmi sapere quanto ritenessero scomoda, inutile ed infantile l’idea che camminare sotto la pioggia in città potesse essere un’esperienza appagante.»

«Posso invitarla a proseguire la passeggiata in mia compagnia?»

«Se non le dispiace, Michael, vorrei essere io ad inviarla a bere qualcosa di piacevolmente caldo. Le va?»

La loro vita insieme ebbe inizio con dieci anni di ritardo. Oppure, potremmo semplicemente pensare che sia cominciata esattamente quando era il momento giusto. Ciò che è importante sapere, è che non si stancarono mai di trascorrere il loro tempo insieme, né di camminare fianco a fianco sotto la pioggia primaverile di Manhattan.

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Racconti brevi

Cloudland

L’aereo che stava portando Marco da Milano a Bari iniziò la sua discesa.

Il giovane lavoratore aveva cercato di portarsi avanti con alcune attività che sarebbero rimaste inevitabilmente in arretrato durante la pur breve trasferta. Gli era infatti risultato come sempre impossibile dormire durante il volo, nonostante si fosse alzato poco prima delle cinque per raggiungere con un adeguato anticipo l’aeroporto. Come prevedibile, tuttavia, non era riuscito a combinare granché, a causa della sonnolenza che aveva ammantato la sua mente.

Approfittò pertanto della graduale perdita di quota per ammirare il panorama dal finestrino. Fin dalla sua prima esperienza con gli aerei aveva adorato la vista del mondo dall’alto, e quella sensazione non si era mai placata. Poiché non era mai atterrato sulla Puglia, era curioso di scorgerne il profilo costiero, cogliendo così una parte dei suoi quattrocento chilometri di lunghezza.

Purtroppo, rimase deluso: una fitta ed imprevista coltre di nubi gli impedì la vista che desiderava. Attese comunque pazientemente di attraversare quel soffice e denso strato di gocce d’acqua, consapevole di come il suo obiettivo fosse solo rinviato. L’avvicinamento allo strato superiore del candido tappeto si completò in poco più di un minuto, riservando a lui ed agli altri passeggeri uno spettacolo del tutto inatteso.

L’aereo si ritrovò infatti a volare tra due densi strati di nubi, creando un ambiente meravigliosamente surreale. Sopra e sotto di loro, i viaggiatori scorgevano solo un diffuso bianco, mentre di fronte scorgevano la sottile lamina azzurra del cielo. Diverse persone approfittarono di quel momento per prendere il telefono e catturare la poesia di quella visione. Marco fu ovviamente fra questi, rapito dalla bellezza eterea dell’ambiente circostante.

Richiamò subito la galleria dello smartphone per verificare che lo scatto fosse soddisfacente, anche se difficilmente sarebbe riuscito a catturare tutta la poesia che stava percependo. Aumentando lo zoom della foto, tuttavia, si fermò all’improvviso: qualcosa lo colpì e lo spaventò al tempo stesso.

La macchia di colore che aveva colto e che pensava fosse un volatile, allargata al limite di ciò che la definizione consentiva, si era rivelata essere una strana creatura umanoide con le orecchie a punta che sembravano sbucare da un cappello rosso a falda larga. Le leggende lo avrebbero definito un elfo.

Una creatura di fantasia sospesa tra le nuvole, a chilometri dal suolo. Com’era possibile? Alzò lo sguardo dal telefono al finestrino, ma quella macchia era scomparsa. Non si capacitò di cosa potesse essere accaduto, perciò inquadrò nuovamente il panorama con lo smartphone per cercare di ritrovare il punto esatto in cui aveva catturato l’elfo. Come per magia, l’essere era di nuovo lì.

E non era finita: sembrava addirittura che stesse salutando l’aereo su cui Marco viaggiava. Il giovane doveva essere impazzito, evidentemente le poche ore di sonno dovevano avere colpito, anche perché nessun altro passeggero sembrava essersi accorto di quella creatura a cui il velivolo si stava rapidamente avvicinando.

Marco abbassò di nuovo il telefono, e l’elfo scomparve. Decise allora di passare dalla fotografia al video: riprese per una decina di secondi la creatura, e quando riguardò la ripresa, questa sembrò addirittura parlare! L’uomo indossò le auricolari, e sorprendentemente riuscì a sentire la voce amichevole seppur stridente dell’essere fatato.

«Marco, abbiamo bisogno di te, qui a Cloudland! E’ un’emergenza, ma non ti ruberò molto tempo.»

Il giovane si sentì in dovere di rispondere, confortato dall’assenza di altri passeggeri di fianco a lui e confidando che coloro che sedevano nelle file adiacenti non lo stessero ascoltando: «Cosa dovrei fare?»

Magicamente, il video riprese andando oltre ciò che Marco stesso aveva registrato: «Non ti preoccupare, chiudi gli occhi: al resto penserò io.»

Marco pensò che in fondo quella richiesta fosse un ottimo consiglio, perciò chiuse gli occhi e cercò di rilassarsi. Evidentemente si trattava di un sogno, non doveva fare altro che aspettare di atterrare perché quell’assurdo volo onirico avesse termine.

Sentì una corrente d’aria di moderata intensità su tutto il corpo, perciò si vide costretto ad aprire gli occhi. Si ritrovò seduto sulle nuvole, proprio di fianco all’elfo.

«Cosa diamine succede! Come hai fatto a portarmi qui?»

L’elfo sorrise: «Non ti preoccupare, guarda di fronte a te.»

Marco vide l’aereo immobile, a circa trecento metri di fronte a dove si trovava. Il tempo si era fermato, ed in quella realtà acronica evidentemente le leggi della fisica funzionavano in modo differente, prima fra tutte la gravità che non lo stava facendo precipitare verso l’Adriatico.

Sempre convinto di vivere un sogno, il giovane decise di rilassarsi e godersi quell’incontro del tutto originale: «Cosa posso fare per te?»

«Mi chiamo Fanon, sono l’elfo a capo delle correnti. So che tu sei un giovane e brillante ingegnere, avrei bisogno che tu dessi un’occhiata alla sala macchine, perché c’è qualcosa che non va e non riesco davvero a capire cosa. Sarà che il mio esperto di pressione atmosferica è in ferie ed il suo sostituto questa mattina si è ammalato, ma vorrei evitare problemi.»

L’elfo guidò l’uomo all’interno delle nuvole, dove passarono improvvisamente dal bianco che li avvolgeva alle luci artificiali di una enorme sala attrezzata di moderni monitor e sensori di vario genere.

Marco rimase a bocca aperta: «Niente male davvero.»

Fanon si mise i pugni sui fianchi, sorridendo con aria tronfia: «Seguiamo tutte le migliori evoluzioni tecnologiche degli uomini per aggiornare costantemente le strumentazioni, perciò quello che vedi è il meglio che voi umani possiate avere.»

«Bene, qual è il problema?»

L’elfo condusse Marco di fronte ad una serie di monitor che evidenziavano problemi ed errori su diverse sonde. Lavorarono fianco a fianco per quasi due ore, per quella che fu la percezione dell’uomo, finché tutti i valori non furono rientrati nei limiti.

«Bene, niente più spie rosse.»

«Ti ringrazio, non so davvero come avrei fatto senza il tuo aiuto.»

Lieto di essersi reso utile, ma allo stesso tempo consapevole di non avere vissuto altro che un sogno, Marco tornò con l’elfo al di fuori della coltre bianca, dove Fanon lo salutò e lo fece tornare sull’aereo.

L’uomo riaprì gli occhi, scoprendo che il velivolo stava ormai passando lo strato inferiore delle nuvole e la Puglia sotto di loro stava finalmente comparendo. Il ricordo dell’avventura vissuta nella fantasia onirica lo fece sorridere, ma si costrinse a concentrarsi sugli impegni lavorativi che lo attendevano per la giornata.

Quando furono atterrati e poterono riattivare i dati sui telefoni, Marco riprese il suo e verificò di non avere chiamate. Scoprì di avere ancora la galleria aperta, così gli venne istintivo darle un’occhiata. Lo smartphone gli cadde di mano.

Erano ancora lì, sia la fotografia che il video di Fanon. Scoprì che la voce dell’elfo era perfettamente udibile, ma le sue parole erano cambiate:

«Grazie Marco. Non puoi rendertene conto, ma hai dato una grande mano al mio popolo, ed indirettamente anche al tuo. Un giorno, stanne certo, sapremo sdebitarci!»

Fu con le mani tremanti per l’emozione che l’uomo si preparò per iniziare la sua giornata lavorativa. Faticò a concentrarsi, dopo avere scoperto che esistevano creature tanto eccezionali, e che avevano addirittura chiesto il suo aiuto.

Tanti anni più tardi, quando l’umanità non ebbe più bisogno di lui, gli elfi tornarono a trovare Marco per portarlo con sé, rivelandogli i segreti profondi del pianeta su cui entrambi i popoli vivevano e vivono tutt’ora.

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Racconti brevi

Il poeta

Il poeta sedeva sulla panchina con lo sguardo perso nel vuoto. Sentiva di avere perso la capacità di evocare le sue emozioni nei versi, e ciò lo lasciava smarrito come un ragazzo al primo giorno di lavoro.

Teneva appoggiato sulle sue gambe il fidato quaderno con la copertina in legno di bambù. A quelle ruvide pagine aveva affidato negli anni i suoi sogni e le speranze, ma anche i timori per il futuro ed il ricordo delle cicatrici del passato.

Il foglio che avrebbe dovuto accogliere i suoi pensieri, quel giorno era desolatamente vuoto. C’è qualcosa di magico ed al tempo stesso di angosciante in una pagina bianca: da una parte, è entusiasmante iniziare a creare qualcosa di totalmente nuovo, dando vita alla propria arte in versi, perché non si può mai sapere dove ci condurrà quel viaggio all’interno della nostra anima; al tempo stesso, se la carta resta intonsa troppo a lungo significa che qualcosa si è inceppato nel nostro meccanismo interiore. Quasi certamente non stiamo affrontando il momento giusto per dare forma ai nostri pensieri, lieti o tetri che siano.

Il momento di aridità creativa si trasforma in un problema quando le ore di sterilità si susseguono fino a diventare giorni. Il poeta non sentiva sgorgare le proprie emozioni dal cuore alla penna oramai da una settimana, nonostante fosse giunta la primavera, ed ogni mattina dopo avere salutato la moglie e la figlia si fosse seduto pazientemente sulla sua solita panchina, nel parco del paese, il quaderno in grembo in attesa di ricevere le sue pennellate d’inchiostro.

Cosa si era rotto dentro di lui? Cosa poteva essere accaduto per sopprimere la sua creatività fino all’assenza di sentimenti? Eppure, la natura rinascente che lo circondava aveva attivato il suo corpo tanto quanto il suo spirito: provava il desiderio di caricarsi in spalla la famiglia e di partire per girare il mondo, per vivere mille avventure e collezionare centinaia di ricordi. Aveva provato a raccontare quella positività, ma nulla che meritasse di tramutare in blu quei fogli bianchi era giunto alla parte cosciente del suo essere.

Rimase sulla panchina per ore. Aveva scelto di scrivere per vivere, e di vivere per scrivere. Se tuttavia l’arte dentro di lui si era improvvisamente spenta, avrebbe deluso sé stesso in primo luogo, e le persone intorno a lui come immediata conseguenza. Avrebbe dovuto riporre la parte più importante di sé in un cassetto, costringendosi a trovare un lavoro che avrebbe detestato, diventando un uomo che non gli era mai interessato essere. Con tutto il rispetto possibile, ma per anni aveva contribuito al sostentamento della famiglia grazie ai suoi versi ed ai racconti che aveva concepito, riuscendo al contempo ad essere costantemente presente nella vita di sua figlia. Un privilegio che, se avesse trovato un impiego, gli sarebbe stato negato, come in fondo accadeva alla maggior parte dei padri.

Quando comprese che la giornata iniziava a volgere al termine, con il vuoto nel cuore si apprestò a richiudere il quaderno, su cui aveva appuntato e presto cancellato diverse parole inconcludenti. Parole così vuote di sentimenti che non avrebbero meritato di sporcare quel foglio sfortunato.

Mentre portava lo sguardo dall’infinito alla realtà di fronte a lui, vide tre donne sopraggiungere dall’ingresso del parco. Non erano persone qualunque, bensì si trattava delle donne più importanti della sua vita: sua madre, sua moglie e sua figlia. Erano arrivate fino a lì passeggiando per il paese, dopo i rispettivi impegni, probabilmente per ricondurlo a casa.

L’iniziale pudore che lo investì, al pensiero che le avrebbe deluse spiegando la sua ormai conclamata incapacità di dare vita alla sua arte, venne sostituito da una violenta ammirazione per la fierezza con cui incedevano verso di lui, donne illuminate dal sole in discesa alle loro spalle. Persone tanto differenti, e che per età ed esperienze diverse vivevano in modo molto personale la rispettiva femminilità.

Il poeta sorrise: la soluzione ai suoi problemi era così vicina da essersi confusa con il mondo che aveva cercato di abbagliarlo con i colori ed i profumi della primavera. Abbassò lo sguardo, spalancando il quaderno che aveva iniziato a socchiudere. Prese diversi appunti su ciò che avrebbe voluto scrivere, e che nei giorni e nelle settimane successivi avrebbero dato vita ad un torrente in piena di pensieri che avevano come unico comune denominatore l’importanza delle donne nella sua esistenza. Parole belle ed intense, che sarebbero state largamente apprezzate perché, nonostante il tema d’uso frequente, sarebbero riuscite ad essere tutt’altro che scontate, rappresentando da un punto di vista maschile tutto l’orgoglio e la difficoltà di essere donna. Ancora oggi. Nonostante gli insegnamenti del passato e la follia degli uomini descritta anche ai nostri giorni dalla cronaca.

Per quella sera, tuttavia, si sarebbe limitato a segnare i capisaldi del suo ritorno alla creatività. Si alzò, andando incontro alle tre donne più importanti della sua vita. Loro lo guardarono, piacevolmente sorprese dal suo sorriso così sincero ed aperto.

Lui semplicemente spiegò: «Verrà forse un giorno in cui vi deluderò. Arriverà un momento in cui non riconoscerò più in me stesso la persona che ho sempre voluto e creduto di essere. Fino a quel momento, voglio solo consegnarvi una certezza: vi voglio bene, e se in quell’ipotetico giorno me ne dovessi dimenticare, vi prego di ricordarmelo, perché il vostro amore è l’energia che mi tiene in vita e che mi rende l’uomo che avete di fronte in questo momento.»

La famiglia lasciò il parco, lieta ed unita nell’amore che legava ognuno di loro e che, nonostante le difficoltà insite nel destino di qualsiasi rapporto, nel loro futuro non sarebbe mai venuto meno.

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Recensioni

L’assassino, il prete, il portiere

Autore: Jonas Jonasson

Titolo: L’assassino, il prete, il portiere

Anno: 2015

Editore della copia recensita: Bompiani

Trama: un assassino abituato ad entrare ed uscire dal carcere, un pastore profondamente ateo ed il responsabile della reception di una ex casa di appuntamenti trasformata in uno squallido hotel, mettono insieme le loro capacità per sopravvivere alla Svezia moderna e per creare per sé stessi quelle opportunità che la vita ha loro negato.

Fra svolte spirituali imprevedibili e l’opposizione dei peggiori criminali di Stoccolma, i protagonisti affronteranno gli alti e bassi delle originali (e discutibili) attività imprenditoriali che saranno in grado di concepire durante gli anni di collaborazione, alla ricerca di una felicità e di una ricchezza interiore che all’inizio della loro avventura assieme apparivano irraggiungibili.

Giudizio: Jonas Jonasson è un maestro dell’ironia. Mia moglie si è stupita per il numero di volte in cui mi ha sentito ridacchiare durante la lettura di questo romanzo, nonostante gli eventi non sembrino indurre l’ilarità. Il racconto è infatti ricco di omicidi, pestaggi, imprese criminali, estorsioni, tutto presentato con una certa cura per i particolari.

La verità è che tutto nasce dai personaggi. Fra i tre protagonisti e la schiera di comprimari, Jonasson riesce a creare forme di umanità assolutamente singolari, ma non per questo poco credibili. Fa tesoro delle loro fragilità per pennellare ogni situazione con azioni e considerazioni surreali, spesso imprevedibili e mai forzate o scontate.

Si finisce per fare il tifo per questi tre personaggi a cui la vita ha voltato le spalle, certamente anche per via del loro modo di affrontarla, e questo nonostante le loro imprese siano tutt’altro che moralmente esemplari. La colpa è tutta di questo maestro dell’ironia, che con il suo stile travolgente non ti permette di staccarti dalla lettura e di sperare che i protagonisti riescano ad ottenere la loro rivincita nei confronti del mondo.

Un libro da divorare per chiunque ami uno stile dissacrante e non soffra per qualche pugno inferto a ciò che si ritiene cristianamente buono e giusto.

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Racconti brevi

Le scelte della vita

Nella casa ammantata dal silenzio notturno, Paolo non riusciva a staccarsi dalla visione della cantina disordinatamente affollata dai ricordi delle passioni di un tempo.

Erano state ore totalmente irrazionali. Avrebbe detto di avere trascorso la serata in compagnia dei soliti tre amici, bevendo e giocando a briscola chiamata. Era certo di essere uscito dalla casa che li aveva ospitati con la testa resa leggera dell’alcool, tuttavia in condizioni adeguate alla guida. Non aveva dubbi in merito al fatto che al suo fianco ci fosse quello tra i compagni di baldoria che abitava più vicino a lui, così che Paolo potesse dargli un passaggio. Eppure…

…eppure quando frenò di colpo per evitare un gatto che aveva attraversato all’improvviso la buia strada comunale, la voce della persona spaventata accanto a lui giunse al suo orecchio con un tono più femminile di quanto lui si sarebbe aspettato. Da allora, nulla aveva più avuto senso.

Dopo essersi ripreso dalla sorpresa, sfruttò la scusa dell’ebrezza per porre alla donna sconosciuta quelle domande che, in condizioni di lucidità, non avrebbero avuto alcuna ragione di essere formulate. Scoprì in tal modo che Silvana, la probabile trentenne accanto a lui, era in effetti sua moglie; che avevano un figlio di due anni di nome Tommaso, in quel momento affidato ai nonni paterni; che erano trascorsi sette anni dalla sera che fino ad un attimo prima pensava di stare vivendo; infine, che l’amico svanito accanto a lui viveva e lavorava in Irlanda ormai da quasi un anno.

Quando ebbero raggiunto quella che scoprì essere la sua casa coniugale, la sua testa vorticava ancora tremendamente. Silvana diede la colpa all’eccesso di drink della serata, così lo punì abbandonandolo a dormire sul divano. Paolo ne approfittò per aggirarsi tra le stanze della villetta a schiera in cui vivevano, finché non giunse in cantina dove trovò le vestigia di quel passato cristallizzatosi nella sua mente, ed apparentemente anche nel tempo magicamente slittato in avanti di sette anni.

Nel caos organizzato di quel luogo, Paolo trovò tutte le passioni di un tempo: il suo primo romanzo, la cui bozza stampata e annotata giaceva sotto una coltre di polvere; la sua amata chitarra, così scomoda da raggiungere che probabilmente non veniva più toccata da almeno due anni; la collezione di oggetti e testi sul Giappone, una terra che amava e nella quale aveva deciso che si sarebbe un giorno trasferito, ora simulacro di un’adorazione spentasi nelle nebbie del tempo.

Realizzò che non era solo sua moglie ad essergli sconosciuta. Paolo capì di non avere la più pallida idea di chi fosse quell’uomo di cui vedeva l’immagine riflessa nel vecchio specchio appoggiato alla parete della cantina.

«Io non ti conosco. Vattene dalla mia vita, rivoglio la persona che ero, rivoglio il mio futuro, i miei sogni!»

Risvegliata dalle urla e dal lanciò delle cianfrusaglie contro la porta, Silvana scese in cantina.

«Si può sapere cosa stai facendo? Vuoi svegliare tutto il complesso?»

Paolo guardò quella donna che, in un passato di cui non aveva memoria, aveva deciso di sposare. Doveva a lei la colpa di ciò che era successo?

«Cosa pensi di me?»

«In questo momento è meglio che io non parli.»

«Dico sul serio: che opinione hai di tuo marito?»

Silvana si schiarì la voce, prima di rispondere: «Sai, hai fatto tanto sacrifici per noi. Però, per quanto te ne sia grata, devo dire che sei cambiato molto in questi anni. La persona che ho conosciuto tanti anni fa era appassionata e piena di sogni, oggi non riesci a staccare la testa dal tuo lavoro. Non ci fai mancare nulla, ma non ci sei mai quando ti vorremmo vicino, né per me, né soprattutto per Tommaso.»

«Perché mi hai permesso di cambiare?»

«Perché non me la sono sentita di criticarti per aver scelto di mettere da parte le tue passioni per regalarci un futuro più solido.»

Paolo capì perfettamente. Aveva sbagliato tutto, ma a fin di bene, e per la stessa ragione sua moglie lo aveva assecondato. Ora erano entrambi infelici.

«Devo andare, ho bisogno di schiarirmi le idee. Non ti preoccupare, da domattina andrà tutto meglio.»

Paolo lasciò Silvana a bocca aperta, uscendo in piena notte nel freddo autunnale. Non si era nemmeno concesso di chiederle una foto di suo figlio: qualora se ne fosse perdutamente innamorato, non avrebbe avuto il coraggio di tentare di riportare indietro le pagine del calendario, con il concreto rischio che Tommaso non venisse mai al mondo.

Salì in macchina e ripercorse a ritroso la strada, certo che in quel modo sarebbe tornato a vivere un passato che avrebbe aggredito in tutt’altra direzione.

Attese pazientemente parcheggiato vicino a casa dell’amico in cui era certo di avere trascorso la serata, quindi ripartì non appena vide gli occhi di un gatto a lato della carreggiata. Frenò di colpo per simulare ciò che era accaduto poche ore prima, ma non riuscì ad arrestarsi, andando ad urtare contro un albero.

L’amico di fianco a lui si scosse: «Ehi, cosa hai combinato? Ti sei addormentato?»

Paolo era sollevato dalla voce maschile che sentì accanto a sé: «No, un gatto che è uscito all’improvviso mi ha fatto perdere il controllo.»

Quindi era stato un incidente, fortunatamente non grave, a dare vita a quel sogno che lo aveva proiettato in avanti di sette anni. Bene, non avrebbe lasciato che l’insegnamento che aveva tratto da quell’esperienza cadesse nel vuoto.

Nei mesi successivi si impegnò per non lasciare morire i suoi sogni. Fece in modo che il trasferimento in Giappone divenisse una prospettiva concreta; pubblicò il suo primo romanzo e ne iniziò un secondo, pur non coltivando l’ambizione di farne una carriera; infine, non abbandonò mai la sua chitarra e con essa la passione per la musica.

Una sera, circa un anno dopo, diede una festa a casa sua. Invitò un piccolo gruppo di amici a suonare, e si divertì ad affiancarli in un paio di canzoni per togliersi la soddisfazione.

Quando andò a prendersi una birra, una ragazza lo avvicinò per parlargli. Si chiamava Silvana.

Dopo una decina di minuti, era già chiaro ad entrambi come si stesse creando una notevole affinità fra di loro. Lui volle così mettere subito in chiaro il suo piano per il futuro: «Sai, al più tardi entro un paio d’anni vorrei trasferirmi in Giappone.»

«Davvero? E’ meraviglioso! E hai già qualcuno che ti accompagni?»

Il cerchio del destino si era chiuso. Tommaso sarebbe nato qualche anno dopo, in Giappone e con un padre che non avrebbe mai perso la voglia di tenere vive e di trasmettergli le sue passioni.

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Riflessioni

La doppia fine di un romanzo

Uno scrittore completa un romanzo non una, ma ben due volte. Entrambe generano emozioni forti e contrastanti, ma sensibilmente differenti.

La prima conclusione è quella della stesura vera e propria. L’autore sa grossomodo come andrà a finire la sua storia, ma solo quando il torrente delle parole finirà di sgorgare dalle sue mani avrà realmente e concretamente chiaro il destino dei suoi personaggi.

Per quanto la prima stesura possa anche essere relativamente distante dalla versione definitiva, quando si mette nero su bianco per la prima volta la parola fine la sensazione sarà quella di aver perso improvvisamente i contatti con alcuni vecchi e cari amici. Malinconia e smarrimento sono il primo violento impatto sull’umore dello scrittore, in stridente contrasto con quell’energia incredibile che fino a pochi istanti prima cattura le nostre mani quando capiamo che con un ultimo, piccolo sforzo creativo, la nostra opera sta finalmente giungendo a conclusione.

La soddisfazione professionale da una parte, il vuoto emotivo dall’altra. Emozioni che aiutano a capire quanto abbiamo messo di noi stessi nel concepimento di quelle pagine su cui abbiamo speso giorni e notti.

La seconda volta in cui si dichiara la fine di un romanzo, è quella in cui si decide che la duecentomilionesima revisione è quella giusta. La verità è che uno scrittore non darebbe mai alle stampe un’opera, perché ad ogni rilettura, sua o da parte di un fidato consulente, compare sempre quella virgola fuori posto, oppure quel paragrafo in cui un personaggio perde di consistenza.

D’altronde, un autore è pur sempre un essere umano. Vive come tutti giornate positive ed altre meno buone, sperimenta momenti di fiducia nei confronti dell’umanità e situazioni in cui si isolerebbe in un monastero in vetta all’Himalaya. Tutto ciò condiziona il modo di rileggere la nostra stessa creazione, portandoci a giudicare in modo leggermente diverso ciò che abbiamo scelto di mettere nero su bianco.

Alla fine, tuttavia, giunge il momento in cui capiamo di dover dichiarare conclusa la nostra opera. E’ il giusto premio per noi stessi, i nostri personaggi meritano di prendere vita di fronte agli occhi dei lettori. Ma quanto è difficile accettare di non poterci ripensare per un altro migliaio di riletture.

In conclusione, la narrativa è un incubatrice di emozioni, non solo per il lettore, ma anche e soprattutto per l’autore dell’opera. Sono sensazioni complesse e spesso contrastanti, ma che rendono piena l’esperienza offerta da quest’arte meravigliosa.

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Racconti brevi

Perdente

L’uomo lascia che ogni goccia bollente cada con violenza sulla sua testa. Inizialmente, ha regolato il miscelatore affinché il calore lo avvolgesse in un abbraccio materno e consolatore. Poco per volta, tuttavia, ha ruotato sempre più la manopola verso sinistra affinché il piacere si trasformasse in sofferenza, il conforto in castigo.

Già, perché sente una disperata urgenza di punirsi per il proprio fallimento. Rincorre lo stesso obiettivo ormai da anni, mancandolo con consumata costanza in modi spesso tragicomici, che hanno attirato nel tempo l’ilarità di colleghi ed amici.

La sua dolce, amata metà riposa beatamente ormai da un’ora. Ha provato ormai tante volte a convincerlo che non valesse la pena di struggersi fino a quel punto. Ora si è semplicemente rassegnata, lasciandolo solo a cercare di lavare via il fallimento che trasuda dai pori della sua pelle rovente.

In fondo, lui è stato più volte sul punto di cedere, dando retta a lei o ad altre persone di cui sentiva di potersi fidare. In alcune occasioni aveva iniziato ad informarsi seriamente per cambiare completamente strada, puntando verso traguardi meno stimolanti ma più facilmente raggiungibili. Alla fine, però, era sempre tornato sui suoi passi, e probabilmente avrebbe fatto lo stesso quella sera. Perché?

Perché quella era la vita che aveva vissuto suo padre prima di lui. Entrambi l’avevano nel sangue, e quando si assomiglia così tanto al proprio genitore, non è possibile fingere di poter diventare qualcun altro solo perché si decide di cambiare. La trasformazione deve essere profonda, deve includere le solide radici che ci ancorano alle nostre competenze civili, sociali, politiche… Può riuscirci un ventenne, ma a quarant’anni si tratta di una salita decisamente troppo ripida.

Esce dalla doccia. Mentre si asciuga, continua a scuotere la testa ripensando all’ultima, cocente delusione. Quell’uomo che non si dà pace si guarda nello specchio ammantato dall’umidità, scorgendo il profilo del suo vecchio.

«Gli anni iniziano a passare anche per me. Guarda che razza di peli bianchi mi stanno spuntando nella barba. Maledetto fallito.»

Incolpa infatti della sua canizie lo stress unito al mancato appagamento. Se almeno una volta ogni tanto avesse potuto sentirsi orgoglioso della strada che ha intrapreso, probabilmente ora sarebbe ancora perfettamente castano. Anche perché, siamo sinceri, il modo in cui la sua barba si sta imbiancando è tutt’altro che intrigante, come capita invece a molti altri uomini più fortunati di lui.

Indossa il pigiama ed esce dal bagno, accostando delicatamente per non svegliare sua moglie.

Si sposta in sala per spegnere le luci. Qui vede sul tavolino di fronte al divano la sua bottiglia di whiskey con il bicchiere sporco. Li raggiunge per ripulire, per quella sera ha compensato a sufficienza la tensione con l’alcool.

Quasi istintivamente, accende la televisione. Gli sembra dolorosamente corretto aggiornarsi sull’entità del suo ultimo, frustrante buco nell’acqua.

La voce del telecronista che giunge alle sue orecchie ha un tono insolitamente sostenuto, considerato che lui ha spento non appena la sua squadra ha subito il terzo gol.

«Attenzione, calcio d’angolo a venti secondi dal termine. Un finale incredibile: dopo l’annullamento del terzo gol del Bayern, la Juventus ha rimontato fino al pareggio ed ora ha un’ultima occasione prima dei supplementari per portare a casa la sua terza Champions League.»

Il telecomando gli cade di mano. Ha abbandonato i suoi beniamini, distrutto dal peso dell’ennesimo fallimento, ed ora li trova ad un passo dal trionfo. Si sposta a tre spanne dal televisore. La tensione che si era impegnato a sostituire con un profondo sconforto, torna a salire a livelli vertiginosi, mentre la palla inizia la sua traiettoria verso l’area.

«Colpo di testa… Rete! Rete! All’ultimo secondo, la Juventus diventa campione d’Europa per la terza volta nella sua storia!»

In ginocchio ed in lacrime dopo aver urlato tutta la rabbia e la frustrazione accumulate in anni di cocenti delusioni, l’uomo non perde un’istante: chiama suo padre, e nella loro sintonia capiscono di aver raggiunto quella fetta di paradiso a cui solo la passione sportiva può permettere di accedere.