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Racconti brevi

Dimenticare Momo

Jenny stuzzicò distrattamente il piercing al sopracciglio destro. Lo aveva da così tanto tempo che quasi non ci faceva più caso.
Sullo smartphone scorrevano post che non riuscivano a fare breccia tra i suoi pensieri, ma non per questo le veniva voglia di condividere con il mondo la sofferenza che stava affrontando: molti l’avrebbero ritenuta banale, così poco interessante da far venire loro voglia di deriderla, come si usa al giorno d’oggi.
Non aveva bisogno di aggiungere altra rabbia e malumore alla sua giornata.

Decise che era giunto il momento.

Sul telefonino avviò per l’ennesima volta Snuff degli Slipknot, una ballad malinconica sulla fine di una storia d’amore. Non aveva mai trovato un brano che riuscisse a capirla così a fondo, soprattutto in quelle ultime parole che Corey Taylor ripeteva con la sua voce graffiante: Se ti importa ancora, non farmelo mai sapere.

Era esattamente ciò che pensava: se in quel momento Momo stava ancora pensando a lei, Jenny aveva bisogno di restarne all’oscuro, poiché temeva che nonostante tutto, i suoi sentimenti per lui l’avrebbero costretta a perdonarlo, cascandoci di nuovo, per poi trovarsi a soffrire ancora e ancora.

Perché di una cosa era certa: lui non sarebbe mai cambiato, né per lei, né per nessun’altra.

La canzone le strappò come ogni volta alcune lacrime. Erano sempre di meno ad ogni occasione, Ma ciò non significava che lei stesse meglio. Più semplicemente, era un chiaro segno che avrebbe dovuto cercare altri modi per elaborare le sue ferite interiori.

Sua madre bussò alla porta per avvisarla che la cena era in tavola. La donna sapeva già che Jenny non le avrebbe risposto, ma era suo dovere quantomeno tentare, sperando che il giorno in cui quella porta si sarebbe riaperta spontaneamente arrivasse presto.

La ragazza fece come sempre finta di non sentire.

Una conseguenza di questo stato emotivo era una marcata passività verso il mondo esterno. Da quando aveva concluso due mesi prima un contratto come barista in un pub della cittadina in cui viveva, era perciò rimasta senza un impiego. Apri distrattamente un’applicazione che elencava gli annunci di lavoro nella sua zona, più per abitudine e per dare un contentino ai suoi genitori che per l’effettivo desiderio di tornare a misurarsi con qualche datore di lavoro geloso dei suoi quattro spicci, oppure con dei colleghi freddi e dispettosi, impegnati ad evidenziare la loro superiorità professionale.

Un’inserzione sponsorizzata attirò la sua parte cosciente. Veniva ricercato un profilo che non c’entrava nulla con il suo, e la zona era totalmente distante da quella in cui lei viveva: che razza di indicizzazione veniva fatta per far comparire quegli annunci a pagamento sul profilo degli utenti?

Si sforzó di approfondire, giusto per capire se in fin dei conti ci fosse qualche aspetto parzialmente coerente con il suo curriculum.

“Cercasi ragazza predisposta al sacrificio per aiutare la titolare di un’azienda agricola biologica nelle principali attività. Si richiedono buona volontà, disponibilità immediata ed a trasferirsi presso l’azienda per tre mesi, amore per la natura e pazienza. Si offrono vitto, alloggio ed un rimborso spese commisurato ai risultati dell’attività.”

Davvero singolare. Forse addirittura illegale: nessuna retribuzione effettiva, ma solo un possibile rimborso spese? Magari lo stipendio sarebbe stato formalmente equiparato al valore dell’affitto di una stanza e dei pasti, ma certamente era tutto molto strano.

Jenny dovette tuttavia ammettere che l’idea di quella fuga la intrigava parecchio. Per tre mesi, nulla che le ricordasse Momo o la sua incapacità di passare oltre.

La location, poi, esercitava su di lei un’attrattiva particolare, poiché le ricordava le vacanze di famiglia di un tempo: era in Val di Fassa, a circa milleduecento metri d’altezza.

Quell’opportunità sembrava costruita di proposito per darle un’occasione di rivincita.

Non perse un ulteriore istante: inviò immediatamente la sua candidatura, per poi pentirsene qualche minuto più tardi. Per compiere un salto simile bisogna essere pronti quantomeno per uscire dalla porta della camera da letto, per Jenny quel momento non era ancora giunto.

Eppure, prima o poi un calcio nel sedere sarebbe dovuto arrivare, affinché si decidesse a riprendere in mano la sua vita.

Quella spinta arrivò un paio d’ore più tardi, quando sorprendentemente la titolare dell’azienda la chiamò.

Jenny fu così sorpresa che tentennò per qualche secondo prima di premere il tasto verde sullo schermo. Poi, si disse che in fondo avrebbe sempre potuto rifiutare, ma non era mai una buona idea non rispondere dopo avere inviato un curriculum.

La voce all’altro capo della linea era cortese ed allegra, ma determinata. Voleva capire se la ragazza con cui stava parlando fosse solo alla ricerca di un posto in cui stare, oppure se sarebbe stata una valida aggiunta alla squadra al femminile.

La ragazza non volle nascondere nulla. Non era sufficientemente motiva per poter condurre un classico colloquio in cui avrebbe messo in luce solo i suoi punti di forza.

Spiegò pertanto di avere bisogno di una mano che la tirasse fuori da una situazione sentimentale che l’aveva fatta soffrire più del dovuto. Forse perché aveva scoperto il tradimento da parte del suo fidanzato in un momento in cui era certa che il loro amore sarebbe durato per sempre. Momo era stato davvero bravo, stordendola con attenzioni sempre più frequenti per guadagnare la sua fiducia pressoché incondizionata. Le era piaciuto a tal punto ritrovarsi circondata da un torrente di affetto, che spesso si chiedeva se non sarebbe riuscita a passare oltre alla sua infedeltà.

Quando si risvegliava dal torpore ed emergeva da quell’enorme senso di vuoto, capiva che in fondo non era quel ragazzo che stava cercando di riavere nella sua vita, ma le sensazioni che lui gli aveva regalato, figlie di una menzogna ordita da uno scontato doppiogiochista.

Durante la telefonata non spiegò ovviamente in dettaglio tutto quanto le era capitato, tuttavia fece trasparire la sua delusione ed il bisogno di ripartire lontano da casa, dalla famiglia e soprattutto dagli amici in comune con Momo.

«Benissimo. Ti senti pronta a regalarmi questa energia che stai tenendo dentro di te?»

Jenny sentì che dentro di lei qualcosa aveva iniziato a cambiare. La forza che aveva raccolto per confessare l’origine delle sue sofferenze era la dimostrazione di un inizio di ritorno alla vita esterna al suo inconscio.

«Sì, sono pronta. Posso venire in qualsiasi momento.»

E così fu. La sera successiva Jenny arrivò a Soraga, in provincia di Trento, a quasi trecento chilometri da casa.

I suoi genitori l’avevano salutata con un minimo di preoccupazione, ma anche con l’enorme sollievo di avere colto in lei un segno di ripresa.

Michela, giovane titolare che aveva solo sei anni più di lei, la accolse a braccia aperte. Per quella sera si limitò a condividere con lei la cena e ad aiutarla a prendere possesso della sua stanza.

Il mattino successivo fecero il giro dell’azienda. Visitarono le stalle, il caseificio, le arnie e infine l’orto, a cui Jenny avrebbe dovuto dedicare la maggiore attenzione. Era infatti l’area di attività che richiedeva minori conoscenze pregresse.

Per quanto riguardava il resto del personale, si trattava principalmente di manodopera stagionale, ma come la ragazza notò rapidamente non c’era nessuno che avesse come lei l’opportunità di risiedere direttamente nelle stanze del bed & breakfast, che avrebbe riaperto le porte il mese successivo dopo alcune settimane di pausa.

«Gli altri lavoratori sono più o meno gli stessi ormai da qualche anno, e vivono tutti in zona. Quando ho pubblicato l’annuncio stavo cercando qualcuno che avesse voglia di dedicarsi all’azienda in un altro modo, diciamo più profondo ed interiore: volevo che la vivesse giorno e notte come faccio io, affezionandosi a tutto ciò che le appartiene e contribuendo con nuove idee per migliorare. Tu hai l’età che avevo io quando ho iniziato, mentre completavo gli studi in agraria ed in attesa che i fondi regionali mi aiutassero a fare un salto di qualità. Spero che mi aiuterai a pensare fuori dagli schemi, come facevo io quando avevo il tempo di mettermi a riflettere.»

Jenny non si spaventò per quelle aspettative. Quando si sentiva emotivamente stabile, sapeva parlare senza peli sulla lingua. A seconda del responsabile con cui interagiva, quell’atteggiamento poteva essere visto come un pregio oppure un difetto. In quel caso, non c’era dubbio sul fatto che i suoi consigli sarebbero stati apprezzati. Doveva solo lasciare che gli ultimi residui di delusione e di malinconia scivolassero via lungo le vallate alpine, per tornare da Momo e condizionargli inconsapevolmente e negativamente l’esistenza.

I giorni iniziarono ad alternarsi alle notti dapprima con la naturale ed attesa successione, quindi sempre più rapidamente. Questo perché la nuova lavoratrice dell’azienda agricola si stava dando un gran da fare, e non solo per scacciare i cattivi pensieri: il passato le faceva sempre meno male, ed i sentimenti per quei luoghi erano progressivamente più forti.

Aveva anche assistito alla nascita di un vitellino, un’emozione così forte ed intima che le fece venire voglia di non staccarsi mai più da quella creatura.

Michela notava tutti i cambiamenti nella nuova arrivata, che poco per volta sembrava sempre più a suo agio, rapidamente autonoma e ricca di iniziativa. Certo, ogni tanto le sue buone intenzioni andavano incanalate nella giusta direzione, ma la titolare scoprì che non si trattava di una persona permalosa, nonostante i modi diretti e quell’ombra nell’anima che aveva mostrato al suo arrivo, ed a cui aveva fatto cenno durante il colloquio.

Le due ragazze impararono poco per volta ad apprezzare i rispettivi pregi ed a lavorare sui reciproci difetti per mantenere un rapporto sereno e positivo. Ci furono alcune discussioni, ma Jenny si rendeva subito conto di non avere conoscenze ed esperienza per controbattere, perciò faceva tesoro delle obiezioni che riceveva per crescere.

Una mattina, la più giovane tra le due uscì prima del solito nell’orto. Sapeva infatti che probabilmente Michela non sarebbe stata molto in forma, quel giorno, come aveva intuito dalla sera precedente.

La titolare si svegliò con fastidio. Avrebbe voluto dormire un altro secolo o due, ma non poteva permetterselo. Uscì pertanto dalle coperte e si avvicinò alla finestra. Spalancata la persiana, guardò fuori e vide la sua giovane assistente concentrata sull’attività che stava svolgendo. Colse un piccolo sorriso di cui la ragazza probabilmente non si era nemmeno resa conto. La luce del tiepido sole illuminò quel volto finalmente sereno, rendendolo ancora più radioso.

Il cuore di Michela perse un paio di battiti.

Cosa le stava accadendo? Non era davvero il caso di complicare il loro rapporto professionale.

Michela si affrettò a buttarsi sotto la doccia. Dopo una rapida colazione, uscì a controllare che fosse tutto sotto controllo.

«Ti sei alzata. Come stai?»

Di nuovo quel sorriso. Da vicino era ancora più doloroso.

«Meglio, grazie, anche se ancora non sono al cento per cento. Tu, invece?»

«Benissimo! Adesso vado alla stalla, ma prima volevo finire di sistemare l’orto perché ieri sera non sono riuscita ad anticipare il tramonto.»

«Ottimo! Sentiti libera di organizzarti come meglio credi. Io ne approfitterò per controllare un po’ di conti, ci vediamo fra un paio d’ore.»

Jenny si sorprese per quella ritirata immediata da parte di Michela, ma in fondo si vedeva sul suo volto che avrebbe avuto ancora bisogno di riposo.

La giovane ebbe la tentazione di entrare con lei e darle una mano, per verificare che non si stesse sforzando troppo anche solo per costringersi a restare in piedi.

Quel giorno, il loro rapporto sembrava invertito. A Jenny non dispiaceva, era una sorta di prova di maturità.

Dovette ammettere con se stessa che Michela era davvero una bella persona, una titolare decisamente rara per modi, comprensione e voglia di condividere le conoscenze. Al suo fianco sarebbe cresciuta molto, anche se al termine del contratto mancava poco più di un mese, e non era affatto sicura che nel suo futuro ci sarebbe stato nuovamente un impiego in quel settore.

Verso mezzogiorno, Jenny rientrò e si mise istintivamente ai fornelli per preparare il pranzo. Michela era infatti ancora assorta nella contabilità.

La ragazza decise di sondare il terreno, anche per capire cosa la titolare si sentisse di mangiare: «Tutto bene?»

«Sì, devo dire che non ci sono grossi problemi di cui dobbiamo preoccuparci. Ordini e prenotazioni per il B&B sono già sufficienti per coprire la gran parte delle spese che ho stimato fino ad inizio autunno, anche oltre se non ci saranno forti grandinate.»

«Allora perché quel volto serio, se posso chiedere?»

Michela non si era resa conto di avere indossato un’espressione severa.

«Non saprei, forse ero concentrata.»

Il tono non ammetteva ulteriori domande. Jenny per un istante pensò di avere fatto qualcosa di sbagliato, ma poi si convinse che doveva essere anche quello un effetto del malessere.

«D’accordo, torno in cucina a preparare qualcosa di leggero.»

Dopo che se ne fu andata, Michela si sentì in colpa. Stava facendo trasparire una freddezza nei confronti della ragazza che aveva origine solo in lei stessa, ed in un sentimento che aveva realizzato solo quella mattina, in un raro momento di debolezza fisica ed emotiva.

Ebbe la tentazione di correre in cucina ed abbracciarla, ma poi si disse che non ne aveva alcun diritto.

Jenny tornò indietro per chiederle conferma su ciò che stava preparando per loro e per la squadra che stava lavorando nei campi. Trovò Michela piegata sulla scrivania, una timida lacrima che faceva capolino all’angolo dell’occhio destro.

«Cosa succede? Devo chiamare un’ambulanza?»

La titolare trasalì, rialzandosi rapidamente. Sorrise, sentendosi davvero sciocca.

«No, non ti preoccupare, altrimenti dovrei andare in ospedale una volta al mese. Sto bene, almeno fisicamente.»

«Ho fatto qualcosa di sbagliato? Se c’è qualcosa di cui vuoi parlare, sono qui. Lo hai fatto tu con me quando sono arrivata qui, voglio poter ricambiare se ne avrai bisogno.»

Michela non riuscì più a controllare corpo e mente.

Si alzò, voltandosi verso Jenny e lasciando parlare il cuore.

«Non voglio che tu te ne vada alla fine del contratto.»

Le lacrime che sgorgavano ora copiose rendevano quella frase poco comprensibile.

«D’accordo, se vuoi che mi fermi ancora ne sarò felice.»

«Ma forse non è il caso. Anzi, non è il caso che tu resti un giorno di più. Ti pagherò il tempo che rimane.»

«Michela, non sto più capendo nulla. Cosa è successo?»

La donna, provata dalle emozioni, faticò a rispondere: «Una cosa terribile.» Si prese qualche istante, prima di proseguire con poche, ma definitive parole: «Mi sono innamorata di te.»

Jenny restò pietrificata. Non aveva minimamente colto quei sentimenti nei suoi confronti, anche se la sintonia fra di loro era cresciuta con una rapidità incredibile.

Michela riprese: «Capisci perciò che non voglio metterti a disagio, perché sono sicura che non potrai mai ricambiare quello che provo.»

La più giovane cercò dentro di sé una risposta. Capì che per tanto tempo aveva cercato una figura maschile che colmasse il vuoto lasciato da suo padre, che se n’era andato quando era ancora una bambina. Gli uomini l’avevano solo delusa, mentre ciò che la legava a Michela dopo nemmeno due mesi di convivenza era immensamente più forte e naturale.

«Sei solo un’arrogante, lo sai? Chi ti da il diritto di rispondere al posto mio?»

Michela spalancò gli occhi di fronte a quelle parole così fuori dal personaggio della Jenny che conosceva: «Cosa vorresti dire?»

«Dico che sono io a decidere quali sentimenti posso ricambiare.»

La ragazza si avvicinò con passo deciso verso la donna di fronte a lei, baciandola con passione e senza esitazione. Era la sua prima volta, e non voleva lasciare che la titubanza dovuta a quelle sensazioni nuove rovinasse un momento tanto importante.

Trovò dentro di sé la conferma di non avere commesso un errore.

Dopo alcuni istanti, Jenny e Michela si guardarono negli occhi, scoppiando in una risata timida e complice.

«Cosa stiamo combinando?» Ebbe il coraggio di chiedere la titolare dell’attività che aveva fatto da sfondo all’inizio del loro rapporto.

La più giovane le scostò delicatamente una ciocca di cappelli dall’occhio destro: «Stiamo semplicemente cercando di capire chi siamo veramente.»

Parole mature, pronunciate da una ragazza che aveva già guardato con attenzione dentro sé stessa, e che per questo motivo in quel momento era riuscita con maggiore facilità a leggere le ragioni di un’evoluzione imprevedibile nella loro amicizia.

Qualche settimana più tardi, l’azienda agricola si preparò per riaprire il bed & breakfast come da programma. Invitarono una persona speciale per un’anteprima e per le prove generali.

«Mamma, benvenuta!»

La madre di Jenny aveva accettato più che volentieri l’invito. Qualche giorno di relax gratuito nelle valli trentine non capita certo a tutti.

La donna era rimasta sorpresa per la decisione della figlia di prolungare la sua permanenza lavorativa in quel luogo così diverso dalla cittadina in cui era cresciuta: pensava che si sarebbe trattato di una semplice fuga per ritrovare sé stessa, invece sembrava che avesse incontrato una nuova dimensione che le calzava a pennello.

Trascorsero alcune ore, prima che Jenny prendesse la madre da parte per parlarle.

«Cosa succede?»

«Tranquilla, non c’è nulla di cui tu ti debba preoccupare. Almeno spero!»

«Così non mi aiuti!»

Il sole stava lentamente calando dietro i monti. I colori esplosero in tutta la vallata, rendendo l’atmosfera unica.

La figlia prese le mani della madre tra le sue per creare un contatto più profondo.

«Quando sono venuta qui, l’ho fatto soprattutto per dimenticare le delusioni che mi impedivano di essere me stessa.»

«Lo so. L’ho capito, ed ho ammirato tanto il tuo coraggio.»

«Non mi aspettavo di riuscirci fino a questo punto. Quassù sono letteralmente rinata.»

«E’ vero, ti vedo più felice: quando sorridi, ti si illumina tutto il viso.»

«Non è tutto merito mio. C’è una persona che mi ha aiutato molto, e di cui… Mi sono innamorata.»

«E’ una bellissima cosa: perché me lo dici come se fosse una notizia così difficile da dare?»

Un respiro profondo, prima di scoprire se sua madre avrebbe accettato la verità: «Perché questa persona è Michela.»

La donna allargò leggermente gli occhi, sorpresa ma forse al tempo stesso preoccupata di non volere trasmettere disagio alla ragazza.

«Questo proprio non me lo aspettavo.»

«Nemmeno io, ma è capitato. Siamo insieme da quasi due mesi, e non c’è nulla che mi faccia pensare di avere preso una decisione affrettata o irrazionale.»

Silenzio.

«Bene, mamma: cosa ne pensi?»

«Penso che se tu sei felice, non ho niente da chiederti se non di farmela conoscere meglio. E penso anche che gli uomini hanno fatto del male ad entrambe, non per loro cattiveria, o forse non sempre, ma semplicemente perché non siamo state fortunate nel trovare persone che ci capissero e ci stessero accanto come avremmo meritato. Se questa ragazza ha avuto il merito di tirarti fuori da quella stanza e trasformarti nella creatura radiosa che vedo di fronte a me in questo momento, non posso fare altro che ringraziarla!»

Le due donne si abbracciarono, creando una sintonia che la depressione che aveva affrontato Jenny negli ultimi tempi a casa aveva fortemente raffreddato.

Una ragazza aveva toccato il fondo. Aveva rischiato di perdere tutta l’autostima, di pregiudicare il suo futuro lavorativo, sentimentale e la propria indipendenza, tutto per un farabutto che si era approfittato di lei.

Ora, grazie ad una coraggiosa mano che aveva teso verso il destino, si era fortunatamente ritrovata. Non solo, aveva incontrato ed accolto il suo futuro dove mai avrebbe pensato.

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L’assalto degli Oru

Seduto comodamente ad occhi chiusi sul divano di casa sua, Patrick inspirò ed espirò profondamente, lasciando scivolare via lo stress accumulato durante la giornata. Intorno a lui c’era il buio, creato artificialmente dalla chiusura delle tapparelle e dall’assenza di altre persone in casa che avessero bisogno delle luci accese.
L’unico suono proveniva dal suo smartphone, che riproduceva rumori bianchi tramite un’applicazione.
Ripeté di nuovo l’operazione: inspirare; espirare; inspirare; espirare.
Sentì il corpo completamente rilassato, e la mente del tutto sgombra da pensieri.
Era il momento di riaprire gli occhi.

Nebbia.
Strano, era certo che sarebbe comparso in un’ampia vallata, ventilata e priva di corsi d’acqua.
All’improvviso, capì. Maledetto olfatto! Quello era l’unico senso che il suo cervello non riusciva ad elaborare in quel luogo senza dove.
Non era infatti nebbia, ma fumo: il villaggio stava andando a fuoco!

Corse a perdifiato nella direzione che gli sembrava corretta, pur non vedendo praticamente nulla.

Ad un certo punto, il terreno si inclinò rapidamente ad indicare la presenza di una collina: doveva essere il luogo su cui gli abitanti avevano eretto una torre di guardia. Data la situazione, Patrick si sarebbe aspettato di sentire voci concitate giungere da lì verso il villaggio, invece nulla. Evidentemente, l’incendio doveva essere iniziato parecchio tempo prima.

Era arrivato tardi.

Risalì il colle, trovandosi poco per volta al di sopra del fitto del fumo. Voltandosi in direzione del villaggio, tuttavia, non riusciva a vedere ancora nulla.

Di fronte a lui si stagliava la torre. Non era altissima, tuttavia era più che sufficiente per tenere d’occhio le due vallate gemelle e prevenire in tal modo l’arrivo di possibili forze ostili.

Patrick varcò la porta, lasciata spalancata. Era un chiaro segno del fatto che la coppia di guardie aveva lasciato frettolosamente quel luogo. Un dettaglio che certamente non lo stupì.

Si arrampicò lungo gli stretti scalini, fino a giungere di nuovo all’aria aperta. Anche da lassù, il villaggio era coperto dalla coltre di fumo. Riusciva ad intuire il profilo di alcuni edifici in pietra, ma non gli fu possibile capire se ci fossero delle persone indaffarate a cercare di spegnere l’incendio. Non avendo un fiume a disposizione, ma solo un pozzo e peraltro piuttosto profondo, gli sventurati abitanti avrebbero in ogni caso avuto enormi difficoltà a contenere un disastro di quelle proporzioni.

Se non erano lì, dove si trovavano ora i paesani? Patrick non poteva accettare l’idea che nessuno di loro fosse sopravvissuto al tragico evento.

Voltandosi in direzione della vallata gemella per scorgere l’origine dell’accaduto, vide invece in lontananza e con sorpresa la popolazione che stava cercando. Erano evidentemente in fuga verso luoghi più sicuri, avendo dovuto accettare a malincuore che per il villaggio non c’era più speranza.

Patrick urlò con quanto fiato aveva in gola per richiamare la loro attenzione, tuttavia erano troppo lontani ed il vento spirava in direzione sfavorevole. Considerato il passo reso lento dalla malinconia e dal peso della sconfitta, l’uomo capì che in una decina di minuti di corsa li avrebbe raggiunti. Scese pertanto senza esitazione i gradini e prese a correre nella loro direzione.

Giunse alle retrovie della carovana nel tempo atteso, piegandosi sulle ginocchia per recuperare dallo sforzo.

Il gruppo si era accorto di lui, ma nessuno aveva voglia di accoglierlo con il consueto entusiasmo.

L’unica persona che si rivolse esplicitamente a lui fu Klothy. Nelle parole della ragazza, la rabbia aveva preso il posto dell’affetto che caratterizzava il loro rapporto: «Sei arrivato troppo tardi! Dov’eri, quando più avevamo bisogno di te?»

La giovane scoppiò in lacrime, confortata dalla madre con un abbraccio più doveroso che arricchito dal necessario affetto. Anche la donna osservò Patrick con evidente rancore, quasi che l’uomo avesse colpa per quanto era accaduto, e di cui lui ancora non sapeva pressoché nulla.

Quel sentimento nei suoi confronti nasceva dalla scelta dell’uomo di non fermarsi mai a lungo nella terra di Kindra. Lui aveva cercato di spiegarne la ragione, ossia il fatto di poter restare laggiù solo durante uno stato di trance raggiunto durante la meditazione: se qualcuno fosse entrato in casa sua e lo avesse risvegliato bruscamente, avrebbe corso il rischio di rimanere intrappolato fra le due dimensioni. Peggio, sarebbe potuto entrare in un coma irreversibile.

In quel momento, una spiegazione così chiara e condivisibile non poteva essere accettata da chi aveva appena perso tutto, e grazie al suo aiuto avrebbe potuto difendersi dalla minaccia. Ma quale?

«Volete dirmi cosa è successo?»

Solo le due donne restarono con lui. Il resto degli abitanti continuò a camminare, voltando verso di lui solo la coda di un occhio con distaccato disprezzo.

La voce di Klothy giunse a lui appena udibile: «Sono stati gli Oru.»

Ancora loro. Quel maledetto popolo di razziatori a cavallo.

Erano nemici giurati di tutte le genti che cercavano stabilità e progresso, perché non concepivano una vita rinchiusa in una dimora che non fosse rappresentata dal cielo aperto.

Quella spiegazione non era tuttavia sufficiente. La torre di guardia avrebbe dovuto prevenire un attacco, e sotto la guida di Patrick erano state costruite solide mura: «Le difese non hanno funzionato?»

«Sembra che qualcuno all’interno del villaggio abbia aperto le porte.»

«Viandanti insospettabili.»

«No, sai bene che qualsiasi straniero non passa inosservato, e non c’era nessuno di estraneo in paese al momento dell’attacco.»

«Quindi, qualcuno è stato corrotto. Immagino che cammini ancora fra di voi.»

«Se questo è davvero ciò che è accaduto, sì: il traditore è fra di noi.»

Patrick ebbe un’idea: «Il sole sta iniziando a calare. Non appena la popolazione si coricherà per la notte, troveremo l’infiltrato.»

La carovana proseguì la marcia fino a raggiungere un fiume ai piedi di una collina. Sembrava una posizione perfetta per rifocillarsi e sostare in posizione sufficientemente sopraelevata da consentire di scorgere nuove minacce. Quella terra era infatti poco conosciuta a tutti loro, perciò erano ignari dei pericoli che stavano correndo in quei momenti.

Nessuno volle scambiare storie intorno al fuoco. Troppo basso era il morale, così come la voglia di rubare all’uomo che giungeva da un altro mondo qualche nuova e prodigiosa conoscenza.

Quest’ultimo finse di dormire come tutti gli altri. In verità, prima di stendersi osservò la posizione degli uomini di guardia e del popolo che cercava di trovare nel sonno una tregua dalla frustrazione.

Capì in fretta a chi doveva attribuire la colpa per l’accaduto: sembravano essere due persone, un ragazzo ed un uomo di mezz’età. Non era strano che, se ricordava correttamente, si trattasse di padre e figlio. Evidentemente, uno dei due era stato contattato e corrotto, quindi aveva parlato con il parente perché si dividessero il compito e spalancassero al momento giusto le due porte cittadine.

Circa due ore più tardi, nel silenzio generale sentì una guarda parlare sottovoce con uno tra costoro, probabilmente il più giovane. Capì che quest’ultimo si stava allontanando con la scusa di una necessità fisiologica. Astuto: pochi minuti più tardi ci sarebbe stato il cambio della guardia, così si sarebbero allontanati entrambi senza dare nell’occhio alle stesse persone.

Così accadde.

Patrick si alzò poco dopo il genitore, avvicinandosi alla guardia che lo aveva lasciato andare.

«Dove vai? Anche tu di vescica debole?»

«No, e non lo sono nemmeno loro.»

«Loro chi?»

«L’uomo che se n’è appena andato ed il figlio che ha lasciato l’accampamento prima del cambio della guardia.»

«Cosa stai dicendo? Pensi che siano stati loro…»

«Non lo penso, ne sono certo. Vedi quel luccichio? E’ la lama del coltello che il padre tiene alla cinta.»

Le guardie corsero all’inseguimento. Patrick non andò con loro, preferendo sostituirsi alla guardia, tuttavia alcuni uomini avevano sentito tutto e si unirono alla caccia.

Circa mezz’ora più tardi, i fuggitivi vennero ricondotti di fronte ad una piccola folla furiosa e che pretendeva una spiegazione, anche se non l’avrebbe mai accettata.

«Ci hanno offerto oro. Tanto oro, quanto non ne abbiamo mai visto prima. Non possiamo pretendere il vostro perdono, ma negli ultimi tempi eravamo in grossa difficoltà, spesso non avevamo cibo da mettere in tavola.»

L’uomo proruppe in un pianto disperato. Aveva venduto il suo villaggio in cambio di una piccola fortuna, ma anche di una vita da raminghi per lui e per suo figlio.

Il popolo senza patria sovrastò il suo lamento con insulti e minacce.

Patrick cercò di calmarli: «Questi uomini hanno sbagliato, non c’è dubbio. Ma in questo momento la priorità e trovare dei mezzi di sostentamento e per costruire un nuovo luogo in cui vivere, sicuro e prospero.»

«E come dovremmo fare? Non abbiamo più nulla!»

«Ci aiuteranno loro.»

Le espressioni perplesse dei presenti non si smorzarono di fronte al sorriso furbo dell’uomo giunto da un altro mondo.

Padre e figlio raggiunsero i nomadi Oru dopo due giorni di cammino. Le tracce degli zoccoli erano evidenti lungo i prati, ma i cavalli correvano per buona parte della giornata, perciò era stato impegnativo colmare la distanza.

«Ecco qui i nostri infiltrati! Bravi, avete fatto un ottimo lavoro. Tenete quanto pattuito.»

Il padre raccolse il sacchetto colmo di monete sonanti, che tuttavia non rispecchiava quanto si sarebbe atteso: «Penso che ci sia un errore, sarà al massimo la metà dell’oro concordato.»

«Vero, perché la cifra non era a testa, ma per tutti e due. Non siete forse padre e figlio?»

L’uomo capì che non aveva senso discutere con quella gente, avrebbero potuto legarlo ad un cavallo lanciato in corsa in qualsiasi momento.

Riprese pertanto la parola: «D’accordo, mi sembra giusto. Vi chiedo solo di accettare questo piccolo dono come ringraziamento per l’opportunità che ci avete offerto, in un momento in cui la nostra famiglia era in difficoltà.»

Il capo Oru e le sue guardie del corpo accolsero quel sacchetto di carta con sospetto ma anche curiosità. Non avevano mai visto quel materiale, né tantomeno quanto conteneva.

«Cosa sarebbero?»

«Funghi, ma di ottima qualità. Vengono da un bosco vicino al nostro vecchio villaggio, e sono molto famosi nella nostra zona, ma credo che non vi sia mai capitato di provarli. Sono da mangiare così come li vedete.»

Una guardia squadrò il padre con perplessità: «Non starai cercando di avvelenarci, spero!»

«Io? E perché mai, chiunque di voi dovesse sopravvivere, ci cercherebbe anche in capo al mondo. Ma se vi fa sentire più sicuri, ne assaggeremo prima uno a testa io e mio figlio.»

Così fecero, cercando di celare la mano tremante in attesa degli effetti descritti da Patrick.

Le conseguenze dell’ingestione di funghi allucinogeni era stata descritte da quest’ultimo come non letale, ma sufficiente a mettere fuori combattimento l’intero ed impreparato campo dei nomadi Oru per diversi minuti, se non addirittura qualche ora.

L’uomo era riuscito a portare con se quei funghi come qualsiasi prodotto naturale che desiderava condurre dal suo mondo, mentre il trasferimento di oggetti artificiali sconosciuti in quella realtà non gli era possibile. Aveva avuto quella idea perché detestava ciò che gli Oru avevano fatto, ma non poteva accettare di muovere in qualche modo guerra e vedere altre persone perdere inutilmente la vita. Il tempo non gli era certo mancato, grazie alla lunga rincorsa durata ben due giorni.

Dopo pochi minuti, padre, figlio e l’intero accampamento Oru erano in preda agli effetti delle allucinazioni. Fu così che gli abitanti senza più villaggio riuscirono a rubare loro tutti i cavalli, fuggendo poi rapidamente e portando con loro i due traditori ancora sotto l’effetto delle droghe naturali.

Dopo alcune ore di cavalcata, raggiunsero il grande mercato equino di Silkvale. Qui vendettero la gran parte degli animali, ottenendo in cambio denaro sufficiente a consentire loro di pensare con un minimo di ottimismo al futuro.

Nei giorni successivi, venne individuato un punto sopraelevato ed abbastanza ampio da poter ospitare un nuovo villaggio con delle mura. Un ampio bosco nelle vicinanze e due corsi d’acqua rendevano quel luogo così adatto che si stupirono che non fosse stato abitato in precedenza, ma d’altra parte quella regione era prevalentemente popolata da tribù nomadi.

Lavorarono alacremente per settimane e settimane, fortunatamente senza nuovi attacchi. Gli Oru erano allo sbando: voci giungevano dai territori circostanti per raccontare quanto quel popolo si fosse separato in clan che continuavano a darsi battaglia per una miserevole supremazia. Il racconto di come la gente di Patrick li avesse lasciati con le terga al suolo aveva fatto il giro della regione, perciò tutti li temevano e guardavano con rispetto il nuovo insediamento.

Alla fine, prima che un nuovo inverno arrivasse e li trovasse senza un riparo, il villaggio era rinato. Era molto più grande, sicuro e dominava una prospera vallata, che gli abitanti avevano già iniziato a coltivare sotto le indicazioni dell’uomo giunto da un altro mondo.

Al quale, è giusto dirlo, faceva sempre più raramente ritorno. Aveva capito che il suo posto era laggiù, accanto a quella gente che pendeva dalle sue labbra e ad una ragazza che gli stava rubando sempre più il cuore.

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Il magico Aris

L’omino dell’asciugatrice vide Edoardo fare capolino da dietro l’oblò.

Il bimbo lo salutò timidamente con la mano destra. In braccio teneva Leo, un coraggioso leone di pelouche in abiti da cavaliere, con tanto di spada e scudo.

«Ciao. Come ti chiami?»

«Ciao, piccolo, il mio nome è Aris. E tu come ti chiami?»

«Io sono Edo, e questo è Leo.»

Il bimbo fece il possibile per alzare il suo pelouche preferito in modo che l’omino lo potesse ammirare in tutta la sua coraggiosa bellezza.

«Caspita, che fantastico cavaliere! Devi essere molto orgoglioso del tuo amico.»

«Sì, però lui si annoia quando io sono all’asilo.»

«Non parla con gli altri giocattoli?»

«No, perché lui è l’unico vero! Gli altri non possono rispondere, non sono capaci.»

«Ho capito. Posso fare qualcosa per lui?»

«Sì, portalo a vivere un’avventura fantastica!»

«E’ molto difficile per me, sono chiuso qua dentro e non faccio altro che girare.»

«Non ci credo, secondo me tu puoi portare Leo in un mondo pieno di magia.»

L’omino dell’asciugatrice restò in silenzio per alcuni istanti, quindi si decise a rispondere.

«Senti, Edo, facciamo così: tu chiedi alla tua mamma di lavarti Leo. Quando la lavatrice lo consegnerà a me, vedrò cosa posso fare. D’accordo?»

Il bimbo annuì con decisione.

Il giorno dopo, Edo tornò dall’asilo e si ricordò che la mamma aveva messo a lavare il suo pelouche preferito.

Corse pertanto a prendere Leo, quindi raggiunse l’asciugatrice.

«Aris, grazie!»

«Per cosa?»

«Leo mi ha raccontato tutto!»

«Va bene, ma non urlare. E’ un segreto fra di noi, nessuno deve saperlo, me lo prometti?»

Edo promise di non svelare a nessuno quello che aveva scoperto.

Leo aveva raccontato che, una volta entrato nell’asciugatrice, Aris gli aveva chiesto di chiudere gli occhi.

Quando il coraggioso cavaliere li aveva riaperti, si era ritrovato in una strada di campagna. In lontananza, il fumo usciva dai camini di un villaggio.

Lo stomaco del leone brontolò rumorosamente. D’altronde, non aveva mai mangiato in vita sua! Decise quindi di avvicinarsi alle case per cercare qualcosa da mettere sotto ai denti.

Arrivato al villaggio, per le sue strade non trovò nessuno. Cosa stava succedendo? Non era una fredda giornata invernale, anzi: il sole risplendeva, riscaldando i campi che aspettavano solo il lavoro dei contadini.

Una porta si aprì quanto bastava perché gli occhi di un’anziana signora le permettessero di vedere lo straniero.

«Sei venuto a salvarci?»

Leo rimase sorpreso da quella domanda. In fondo, però, era pur sempre un cavaliere, perciò non si trattava di una domanda così strana.

«Sì, se posso esservi utile. E a dirla tutta, sono giorni che non mangio: se potessi chiedere qualcosa con cui sfamarmi, sarei anche più d’aiuto.»

«Vieni, giovane cavaliere, ho la zuppa sul fuoco.»

Leo entrò nella casa della signora spaventata. Lei lo accolse, lo fece sedere vicino al focolare e gli servì una buonissima zuppa e del pane. Quindi, si decise a svelargli il motivo per cui tutti si nascondevano.

«Un grosso troll si aggira per le nostre terre. Si nasconde dentro ad una collina, che ha scavato per trasformarla nella sua casa. Di fronte ha costruito uno stagno, sporco e puzzolente, dove tiene rospi e serpenti d’acqua. Quando si annoia o non sa cosa mangiare, viene da noi ad infastidirci ed a rubare tutto quello che abbiamo.»

Il coraggioso cavaliere sentì il fuoco dell’avventura scaldargli il petto: «Non dovete più avere paura, ci penserò io!»

Poco più tardi, il villaggio intero uscì dalle case per incoraggiarlo. Molti erano sicuri che il cavaliere sarebbe scappato a gambe levate, ma si trattava della loro unica speranza.

Leo camminò per un po’ di tempo, finché vide la collina che si affacciava ad uno stagno. Già da lontano sentì il cattivissimo odore che arrivava dalla casa del troll. Per fortuna, aveva preso in prestito una molletta del bucato dall’anziana signora per tapparsi il naso.

Si avvicinò a sufficienza per poter essere sicuro che il suo richiamo arrivasse dentro all’abitazione.

Un potente ruggito anticipò le sue parole: «Esci dalla tua tana, troll! I tuoi giorni di cattiveria sono finiti!»

Un verso spaventoso uscì dalla casa, facendo addirittura tremare lo stagno. La porta malandata si aprì, lasciando uscire un enorme essere verde con un occhio solo e due orecchie a forma di trombette.

«Chi mi ha svegliato?»

«Sono stato io, Leo il cavaliere! Perché continui a dare fastidio agli abitanti del villaggio?»

«Dare fastidio? Come ti permetti! Io sono il loro migliore amico! Ridono sempre dei miei scherzi, e mi regalano un sacco di cose buone da mangiare.»

Leo si stupì di questa risposta: «Mi hanno raccontato cose molto diverse. Forse non vi siete mai capiti?»

«Cosa vorresti dire, cavaliere dei miei stivali?»

«Che gli abitanti si comportano così con te solo perché hanno paura, non per amicizia.»

Il troll rimase molto male dopo quella scoperta.

Leo ebbe un’idea: «Cosa ne dici se andiamo a parlargli insieme?»

Fu così che cavaliere e troll raggiunsero il villaggio.

Gli abitanti all’inizio fuggirono spaventati. Avevano paura che Leo si fosse messo d’accordo con l’essere che li terrorizzava per trattarli ancora peggio e rubare loro tutto il cibo.

«Aspettate, non abbiate paura. Il troll non è cattivo, anzi: vuole essere vostro amico, e ha creduto che voi rideste dei suoi scherzi e gli regalaste da mangiare perché gli volevate bene. Non ha capito che lo facevate solo per paura.»

Un gruppetto di persone più coraggiose uscì dai nascondigli per scoprire se quello che diceva il cavaliere fosse vero.

Uomini e troll parlarono a lungo, si capirono ed alla fine risero insieme.

Nei tempi successivi, gli abitanti insegnarono al troll come coltivare la terra e procurarsi così del cibo, senza rubarlo. La creatura che senza volerlo li aveva spaventati spiegò invece loro come divertirsi, e come non prendere troppo sul serio tanti problemi che li rendevano tristi o nervosi, ma che in fondo non erano poi così importanti.

L’avventura era conclusa. Leo salutò tutti e chiamò a gran voce Aris, perché lo riportasse indietro.

Scoprì così che in realtà, quelli che gli erano sembrati giorni era durati solo un giro dell’asciugatrice.

Quando Edo tornò a casa, Leo gli raccontò con emozione l’incredibile avventura che aveva vissuto, confidando all’amico che avrebbe voluto affrontarne un’altra prima possibile.

«Mi dispiace, la mamma dice che non può lavarti troppo spesso oppure ti rovinerai. Ma non ti preoccupare, presto Aris ti porterà di nuovo nel suo mondo fantastico!»

Leo si tranquillizzò, godendosi un po’ di meritato riposo e facendo volare la fantasia verso nuove meravigliose avventure.

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Mock World

Stefano bacia dolcemente Carlotta sulla guancia.

Lei sta finendo di sistemare la cucina dopo cena, per poi accomodarsi sul divano dove si godrà due puntate della sua serie tv preferita.

Lui si sposta nello studio che un giorno dovrà ospitare il loro primo erede, quando finalmente decideranno di essere pronti per diventare genitori.

La loro non è una coppia già stanca di trascorrere le serate insieme, tanto meno sono alla ricerca di spazi separati. La ragione di quell’isolamento è legata alla recente passione dell’uomo per il metaverso.

Tutto è nato dopo che il gruppo dei suoi migliori amici ha deciso di regalargli un visore per la realtà virtuale, di cui lui ha scoperto presto le potenzialità, grazie anche alle tante aziende che negli ultimi tempi stanno investendo per creare dei veri e propri nuovi mondi digitali.

Uno di questi ha catturato in modo particolare la sua attenzione.

Si chiama Mock World. Apparentemente si tratta solo di una mappa del mondo di buona qualità, percorribile camminando per le strade con il proprio avatar.

In verità, se il proprietario di un immobile autorizza l’accesso e carica un’immagine tridimensionale degli interni, si ha la piena sensazione di trovarsi nella realtà di tutti i giorni.

Non è semplice intuire l’enorme potenziale di questa soluzione.

Mock World può esistere solo grazie ad una batteria di potentissimi server che tengono costantemente attiva questa simulazione di alta qualità, per questo si tratta di un progetto unico nel proprio genere.

I vantaggi per l’essere umano medio sono principalmente due.

Innanzitutto, con l’aumento del numero di giocatori cresceranno anche le opportunità per chiunque di costruirsi una vita nuova e più soddisfacente punto insomma, una vera e propria seconda occasione.

In secondo luogo, per chiunque abbia un’attività commerciale spendibile anche nel mondo virtuale, la possibilità di concludere nuovi affari sarà notevole. Come Stefano ha già intuito da tempo, anche per una professione come la sua, ossia quella di promotore finanziario, una simulazione così prossima alla realtà aggiunge importanti componenti di empatia nel cliente rispetto a telefonate e perfino alle videochiamate.

Per questo motivo, ha iniziato ad esplorare il pianeta digitale per essere fra i primi a strutturarvi un ufficio virtuale.

La porta della stanza si chiude dietro di lui. Nonostante la totale immersione nella simulazione, l’uomo ha spiegato alla moglie che il pensiero che lei o altri ospiti imprevisti possano entrare mentre lui è connesso lo mette a disagio.

Dopo qualche minuto di preparazione, Stefano è finalmente in Mock World.

“Ci sei?”

Quello che Carlotta ancora non sa, è che suo marito sta anche coltivando nuove conoscenze, per nulla legate alle prospettive professionali.

“Certo, ti stavo aspettando.”

Girovagando per Milano alla ricerca di un bell’ufficio da affittare usando la criptovaluta del gioco, l’uomo aveva incrociato un paio di volte l’avatar di una ragazza dagli occhi verdi ed i lunghi e mossi capelli rossi. Si trattava di un’immagine palesemente artificiale, mentre Stefano aveva utilizzato per sé l’aspetto reale, dovendo sfruttare quell’esperienza per la sua attività professionale.

Al di là di quanto potesse trovare attraente e vistosa quell’apparenza, c’era qualcosa nello sguardo della ragazza che lo intrigava. L’espressione del viso e degli occhi non poteva essere simulata come i lineamenti ed i colori, perciò al terzo incrocio casuale decise di richiamare la sua attenzione.

Chiacchierarono tranquillamente per una ventina di minuti riguardo al gioco, per poi lasciarsi senza darsi appuntamenti.

Si ritrovarono una settimana più tardi ad un evento in Via Montenapoleone, all’inaugurazione del negozio virtuale di una nota griffe di moda.

Si persero gran parte della spettacolare presentazione. Iniziarono infatti a passeggiare quasi senza accorgersene per le vie del centro di Milano. Parlarono a lungo di loro stessi, senza mentire ma omettendo particolari che non volevano fare emergere così presto.

Al termine di quel pomeriggio trascorso insieme, decisero di rivedersi.

Durante quella manciata di mesi, la loro amicizia si è trasformata in bisogno reciproco. Non è necessario definire il loro rapporto con parole importanti, anche perché nessuno dei due ha per il momento intenzione di portare quello che c’è fra di loro nel mondo reale.

Molte delle loro giornate si evolvono tuttavia nella consapevolezza che ogni sera riusciranno a trovare un momento per dedicarsi l’un l’altra, confidandosi reciprocamente sogni, obiettivi per il futuro ma anche delusioni.

Alla fine di un percorso di conoscenza sempre più profonda, hanno dovuto svelarsi le ragioni per cui in ogni momento la loro storia avrebbe potuto finire, senza un preavviso né tantomeno un lieto fine.

Queste notizie hanno cambiato il loro modo di godere delle poche ore a disposizione, rendendole più intense e più forte il bisogno di aversi accanto.

Quella sera, Stefano resta come sempre affascinato dalla luce negli occhi della sua musa dai capelli rossi. Eppure, dopo pochi minuti di chiacchiere banali, lui capisce che c’è un’ombra differente.

“È successo qualcosa?”

La risposta non viene pronunciata in tempo. Una voce giunge infatti dalle spalle di Stefano: Carlotta è entrata con un proprio avatar nel mondo reale, ed ha sorpreso il marito mano nella mano con la bella sconosciuta.

“Penso di meritarmi una spiegazione. Sempre che tu abbia il coraggio di offrirmene una credibile.”

“Amore, non è come pensi tu.”

“Speravo in un inizio migliore. Forse è il caso che mi scolleghi, non ho voglia di sentirmi umiliata in questo modo.”

Sonia, questo è il nome di fantasia scelto dalla presunta amante di Stefano, si intromette per spiegare la triste realtà che risiede dietro al loro rapporto.

“Carlotta, aspetta, ti prego: posso spiegarti io cosa sta succedendo.”

Stefano cerca di proteggerla, comprendendo le sue intenzioni: “Non devi farlo se non te la senti, è colpa mia se per proteggere i nostri momenti insieme non ho detto nulla a mia moglie.”

Carlotta appare chiaramente confusa, ma Sonia non ha intenzione di lasciarla a lungo senza una spiegazione.

“Io e Stefano ci siamo conosciuti per caso in Mock World. Ci siamo confidati come fanno due buoni amici, finché non ho deciso di svelargli chi sono veramente. Nel mondo reale, il mio corpo sta morendo a causa di una malattia terminale. Quando ho scoperto l’esistenza di questa realtà alternativa, ho deciso di regalarmi la possibilità di dimenticare per qualche ora al giorno quello che mi sta accadendo, ed a cui non posso rimediare. Tuo marito mi è stato vicino e ha sopportato l’uragano di parole che nella vita di tutti i giorni nessuno tra quelli che mi sono vicini ha più la pazienza di ascoltare. Mi ha aiutato tantissimo, ma quando sei entrata stavo per confidargli che l’esito degli ultimi esami ha accorciato di molto il tempo che mi resta da trascorrere in questa vita. È probabile che questa sia l’ultima volta in cui abbiamo la possibilità di vederci.”

Carlotta, commossa, non dubita di una sola parola pronunciata da Sonia: “Mi dispiace infinitamente. So che è una frase sciocca è priva di significato, ma se posso fare qualcosa per te, non hai che da chiedere.”

Sorprendentemente, è Stefano a rispondere per primo con un sorriso malinconico: “In effetti, qualcosa ci sarebbe.”

L’espressione perplessa di Carlotta è comprensibile. Ciò che Stefano ha in mente è dovuto alla professione di sua moglie, organizzatrice di eventi.

Un anno più tardi, la sede della Onlus creata a nome di Sonia è la location di maggior richiamo nella rappresentazione di Milano in Mock World. Le serate dai molteplici temi sono così divertenti da richiamare ad ogni occasione vip cittadini e dal resto d’Italia, tutti con i loro avatar stravaganti. Calciatori, star del cinema nostrano e della musica fanno a gara per partecipare.

Il risultato è strabiliante, perché consente all’organizzazione di acquistare per tre ospedali cittadini i macchinari per eseguire diagnosi di alto livello per alzare notevolmente gli standard di prevenzione, non solo per la patologia che ha portato Sonia ad allontanarsi troppo presto da entrambe le realtà.

Ad ogni occasione Stefano e Carlotta sono in prima fila, orgogliosi di avere sfruttato la tecnologia moderna per contribuire a salvare tante vite umane, grazie alla voglia di non cedere al destino di una ragazza che resterà per sempre nei loro cuori.

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Una nebbia a colori

La nebbia ammanta il mondo come una coperta spessa e fradicia.

Lanciato timidamente lungo le grigie strade intorno a Milano, tremo per le mani congelate in un’auto che non accenna a riscaldarsi.

Il cappuccio della felpa calcato sulla testa glabra aiuta solamente a mantenere il mio senso di isolamento dal mondo, affinché il momento in cui inizierò ad interagire con l’umanità tardi il più possibile.

Sono un mattiniero, certo, ma ci sono mattine come questa in cui nemmeno io vorrei abbandonare il tepore delle lenzuola.

È il 3 gennaio. Come prevedibile, trovo meno della metà del traffico abituale. Avrei avuto bisogno come tutti gli assenti di prendermi qualche giorno di riposo.

Invece, eccomi qua, la testa orientata in direzione della sede della mia azienda, ligio al dovere di raccogliere ceffoni da ogni dove.

Perché questo è il destino di un reparto che serve tutti e non è servito quasi da nessuno: per quanto bene tu possa fare, è sempre dato per scontato, ed ogni errore viene stigmatizzato ed additato come segno di incapacità e di imperdonabile distrazione.

In fondo, non negatelo: tutti pensiamo che la maggior parte degli impieghi altrui siano più semplici e riposanti rispetto al nostro, perciò è insopportabilmente comprensibile che chi per ruolo si ritrovi a giudicare non accolga con empatia i nostri sbagli, pur spesso dovuti ad un sovraccarico d’incombenze unito alla pressione dell’urgenza.

Mi fermo ad un semaforo. Chiudo per qualche istante gli occhi stanchi, mentre la mente scivola via dal corpo.

Sogno l’amata Toscana. Per chi mi conosce, non è certo una sorpresa.

Immagino di svegliarmi in un piccolo podere avvolto dalla foschia mattutina. Una generosa stiracchiata, e giù dal letto con un sorriso.

La casa è fredda, ma presto una buona tazza di caffè arricchita dalle briciole dei ciambellini che vi ho intinto mi restituisce il calore di cui ho bisogno.

Una sciacquata veloce per togliere i segni del sonno, qualche abito pesante indossato senza troppa cura e dopo pochi istanti sono fuori di casa.

La foschia che gravita leggera attenua i colori della natura che mi circonda, togliendomi il fiato: il paesaggio che amo assume il milleunesimo volto, stupendomi nuovamente.

Passeggio senza fretta né meta per i campi circostanti, per un tempo che non sono in grado di definire. Mi nutro dei profumi della terra bagnata e della vegetazione grata per l’umidità vitale.

Nonostante sia nato e cresciuto in Brianza, quelle terre hanno sempre richiamato in me un’ancestrale sensazione di familiarità. Anche se il mio sangue proviene da quei luoghi, da bambino siamo scesi di rado dai parenti in Toscana, perciò non riesco a spiegarmi del tutto l’origine di questo richiamo. Eppure è dentro di me, forte e costante.

Salgo sulla vetta di un colle per godere di una vista migliore. I profili ondulati che si affacciano tra la foschia, illuminati dal primo sole del mattino, dipingono un ambiente etereo che crea dentro di me un lieve disagio, quasi che non sia degno di ammirarlo.

Resto in contemplazione per diversi minuti, cercando di associare ogni tratto visibile ad un luogo che conosco, finché la nebbia si dirada ed il timido sole invernale riesce finalmente a prendere il sopravvento.

E’ ora di rientrare a casa. D’altra parte, l’orto non si mantiene da solo, nonostante la rigogliosa terra che lo sostiene.

Trascorro le ore successive così, lavorando nel mio piccolo appezzamento soprattutto per proteggere piante e terreno dalla morsa invernale. Lo faccio con estrema pazienza e con un’attenzione ai particolari che mi è del tutto nuova, abituato per vent’anni di carriera lavorativa ad anteporre sempre la quantità e le priorità altrui rispetto alla precisione nel raggiungimento del risultato.

Nel frattempo, la mia mente svuotata da qualsiasi preoccupazione si riempie di storie fantastiche, mondi inesplorati che viaggiatori improbabili affrontano al fianco di guide inaffidabili, avventure temibili ed al contempo entusiasmanti tra creature mai conosciute da anima viva.

Durante la sosta per il pranzo, e di nuovo più tardi dopo una doccia piacevolmente calda, mi dedico a trasporre le mie divagazioni in prosa. La Toscana sta ispirando in me due generi di romanzo: il fantasy, a cui non mi dedico dalla parola fine sulla mia prima opera, e la storia romantica, perché è meraviglioso innamorarsi in questa terra così affascinante, ricca di poesia, di colori e di sapori.

Il suono delle mie dita sui tasti mi accompagna fino al sopraggiungere della stanchezza. Non sono più sufficientemente lucido per proseguire, è ora di concedermi al morbido abbraccio delle lenzuola. Il sonno non tarda ad arrivare.

Il rumore dei clacson mi riporta alla grigia realtà.

Alzo la mano per scusarmi, ma in tutta risposta l’uomo dietro di me mi manda ripetutamente a quel paese.

L’umore si è già guastato, spero tuttavia che rimanga qualcosa nel mio animo dall’avventura onirica.

Raggiungo l’ufficio. Qui accolgo con le solite chiacchiere di inizio giornata i colleghi del mio reparto. L’atmosfera è piacevole, si scherza e ci si prende in giro come avviene in un gruppo affiatato ed armonioso.

Poi, la consueta negatività prende il sopravvento.

Arrivano le prime email sulle urgenze di interesse altrui. Telefonate per problemi, errori riscontrati con colpevole ritardo da chi ha il compito di controllare ma di cui l’unica responsabilità sembra attribuibile a chi ha sbagliato una volta su oltre mille operazioni, compiute per lo più correndo. Nessun filtro, nessuna possibilità di giustificare l’impossibilità di essere perfetti in uno spettro pressoché infinito di attività gestite contemporaneamente.

La misura è colma. Chiamo mia moglie.

«Ma sei sicuro?»

«Assolutamente sì. Ce ne andiamo in Toscana. Ho appena comunicato le dimissioni. Torniamo a casa, facciamo le valige e, non appena Sara uscirà da scuola, partiamo. Va bene? Lungo la strada cerchiamo di capire dove potremo sistemarci, le soluzioni non ci mancano.»

L’entusiasmo dall’altra parte della linea telefonica non lascia dubbi sulla convinzione con cui la mia proposta è stata accolta.

Presto dovremo preoccuparci di come andare avanti, perché i soldi sono sempre un problema. Nel frattempo, l’idea di vivere nella realtà il mio viaggio onirico, questa volta con le due donne che arricchiscono la mia esistenza, restituisce al mio spirito stanco ed appesantito la leggerezza e la voglia di vivere che gli mancava ormai da tempo.

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L’amore distante

Giorgio si sistema sulla sua comoda sedia. La portineria che dà accesso agli uffici ed ai laboratori di diverse aziende farmaceutiche, sarà pressoché inoperosa fino al mattino successivo: poco prima è infatti uscita l’ultima impiegata ancora presente. Resta solo il personale dell’impresa di pulizie, ma entro una mezz’ora anche loro dovrebbero lasciare il complesso.

L’uomo si ritrova solo, nel silenzio delle quattro mura. Fanno eccezione i dispositivi accesi, dal computer per l’autorizzazione degli accessi in orari straordinari all’impianto di riscaldamento, indispensabile per comprensare le vetrate che consentirebbero facilmente al freddo esterno di entrare.

Giorgio apre il sacchetto di carta che ha portato da casa. Si sforza di resistere alla tentazione di addentare anzitempo il suo pasto, perché quello che ha a disposizione dovrà durare per diverse ore, un fondamentale diversivo per allentare il peso della solitudine.

Non soffre in generale Ne ha approfittato i turni di notte, nonostante diversi colleghi ed amici avessero cercato di dissuaderlo dal mettersi a disposizione per quella fascia oraria a quasi sessant’anni. Ne ha approfittato per recuperare qualche serie TV che non era riuscito a seguire nella routine quotidiana, e non ha patito in modo significativo i ritmi disordinati del sonno.

Quella sera, tuttavia, è diversa dalle altre. È la vigilia di Natale, ed un po’ di compagnia una volta tanto non gli sarebbe dispiaciuta.

Ha cercato scherzosamente di convincere il collega del turno di giorno a fermarsi qualche ora con lui, ma ovviamente il giovane ha preferito tornare a casa dalla famiglia. Quel ragazzo gli piace, è sicuro che farà strada: ha carattere da vendere e, soprattutto, il suo italiano non è macchiato da inflessioni dialettali come quello di Giorgio.

L’uomo non ricorda granché dei suoi luoghi d’origine. Ha lasciato la provincia cosentina per raggiungere la Lombardia con i genitori ormai oltre cinquanta anni prima. Sua madre ha tuttavia parlato in calabrese per tutta la vita, condizionando il figlio che anche oggi si rende conto di come spesso le persone gli chiedano di ripetere una parola oppure un’intera frase a causa della sua pronuncia.

Giorgio sorride ripensando a quando Anita, sua moglie, cercava inutilmente di correggerlo. A tanti anni di distanza dal loro fidanzamento, lui ancora non si spiega cosa abbia trovato in quel burbero ragazzone qual era a venticinque anni quella minuta e gentile maestra di scuola elementare di Rozzano.

L’uomo recupera dal telefonino una fotografia di tanto tempo prima, che sua figlia è riuscita a trasportare dalla carta fotografica al digitale. Quanto era bella Anita il giorno del loro matrimonio! Avrebbe potuto innamorarsi di lei mille volte e forse più, per il resto delle loro vite. Invece, un destino beffardo ed ingiusto li aveva separati troppo presto. Giorgio sente ancora una forte fitta al cuore, a quindici anni dal giorno in cui l’aveva salutata per sempre.

Sua figlia Carla gli aveva più volte proposto di andare a vivere da lei a Roma, anche se lui è perfettamente consapevole del fatto che suo genero non ne sarebbe stato felice: Giorgio non è affatto un tipo semplice da sopportare, se ne rende conto, e la convivenza con un altro uomo sarebbe stata parecchio spigolosa. Per questo motivo, aveva evitato di interpretare il ruolo del suocero invadente ed aveva ogni volta declinato la proposta di sua figlia. Peccato, gli sarebbe piaciuto vedere crescere suo nipote. Invece, data la distanza non ha occasione di giocare con Mattia ormai da quell’estate.

Chissà se a 3 anni il bambino sente già l’atmosfera del Natale: in questo caso, il loro appartamento sarà stato riempito dalla sua eccitazione e da decine di decorazioni a tema. Giorgio non è certo un romanticone, ma almeno sul Natale, Anita era riuscita a cambiarlo, tanto che Carla era cresciuta in una casa sempre riccamente addobbata sotto le feste.

Lo schermo dello Smartphone si spegne, un chiaro segno di come l’uomo che lo sta tenendo in mano viaggiava ormai da diversi minuti con la fantasia, lontano dall’immagine di sua moglie.

Di fronte ai suoi occhi, appare la silhouette di un piccolo alberello di plastica imbiancato per simulare la neve. Lo ha portato lui stesso ormai diversi giorni prima, un gesto istintivo che poco si sposa con le sfoglie superfici dell’ambiente circostante. Sarà a causa della turnazione del personale, oppure delle lunghe ore solitarie che hanno il potere di anestetizzare molti sentimenti umani, ma nessuno dei suoi colleghi ha mostrato l’intenzione di aggiungere altri segni della festività imminente. Solo lui, il vecchio brontolone, ha pensato di portare in quel luogo un timido simbolo del Natale.

Giorgio avvia sul telefono una recente serie spagnola di successo. In certe situazioni la giudica un po’ eccessiva, ma tutto sommato non gli dispiace, perciò riesci a seguirla con buona continuità. Reclina leggermente la sedia, le mani incrociate dietro la testa, le gambe goduriosa mente distese ad appoggiare i piedi sulla scrivania e si prepara ad una quarantina di minuti di intrattenimento.

Dopo pochi istanti si deve ricomporre: passa infatti la squadra delle pulizie. Giorgio saluta tutti ed augura ad ognuno un felice Natale. Cerca anche di regalare qualche battuta per allietare il momento, ma quelle persone devono essere particolarmente stanche e desiderose di tornarsene a casa, perché a parte qualche sorriso di circostanza, nessuno gli dà la soddisfazione di una risposta.

Ecco, ora è davvero solo, e lo resterà fino al mattino successivo quando arriverà il collega del turno di giorno. Sempre che si presenti.

È infatti già accaduto in passato che, a causa dei bagordi della vigilia e forse della poca voglia di lavorare nel giorno di Natale, la persona deputata a ricoprire quell’infelice posizione si fosse data per malata.

Giorgio non ne farebbe un dramma, ma certamente non perderebbe occasione per farla pagare al collega per i mesi a venire.

Tornato a godere della posizione di massimo relax, avvia nuovamente la serie TV sullo smartphone e cerca di disattivare il cervello. Senti infatti dentro di sé una crescente malinconia.

Vorrebbe avere la sua famiglia accanto a sé. Non il mattino successivo, ma in quel preciso istante.

Vorrebbe poter riabbracciare sua moglie, sentire la sua voce e la sua timida risata, accarezzarle i capelli e sentire quel profumo che tanto le piaceva, e che inondava ogni stanza in cui passasse, unica eccezione al suo bisogno di non farsi mai notare.

Vorrebbe fare qualche dispetto al suo adorato nipotino. Magari insegnandogli un paio di termini in calabrese, giusto per far arrabbiare suo padre.

Un bambino è in grado con la sua sola presenza di rendere speciale il Natale, Giorgio lo sa perfettamente, perché da quando Carla è cresciuta ed ha perso buona parte della sua magia infantile, le festività non sono più state le stesse. Il nonno ha preparato un bel regalo, incartandolo con quelle mani troppo robuste per adattarsi ai lavori di fino. Ha portato quel pensiero con sé al lavoro, forse per creare un’illusione festiva più credibile. Lo ha tuttavia lasciato in macchina, affinché nessuno lo giudicasse per quel gesto così intimo e difficile da comprendere.

Una scena movimentata nella serie tv richiama la sua attenzione punto si rende così conto di essersi perso oltre venti minuti della puntata, immerso nei ricordi e nella nostalgia.

Ferma la riproduzione sullo smartphone, ed è in quel momento che si accorge delle lacrime che rigano copiose le sue guance.

Si sente in imbarazzo, ma per fortuna non c’è più nessuno che possa cogliere quel suo momento di debolezza.

All’improvviso, un vociare sommesso richiama la sua attenzione. Almeno due persone stanno per arrivare nei pressi dell’ingresso alla sua postazione confortevole ma solitaria. Chi può essere a quell’ora?

Difficilmente si tratta di malintenzionati: date le dimensioni degli edifici nel complesso, potrebbero tranquillamente cercare di entrare dalle vie laterali.

Forse qualche dipendente che ha dimenticato qualcosa di importante prima delle ferie. Ma chi tornerebbe a quell’ora nella notte della vigilia, quando potrebbe tranquillamente rimediare il mattino successivo?

I sensi di Giorgio sono in allerta, data la stranezza della situazione. Proprio a lui doveva capitare, e soprattutto in un momento così delicato?

Quando gli ospiti inattesi si materializzano, l’uomo capisce di non avere proprio nulla da temere. Al contrario.

«Papà, sorpresa!»

Giorgio resta per qualche istante a bocca aperta.

«Carla, cosa ci fate qui?»

La donna che entra raggiante in reception, seguita dopo pochi istanti dal marito con in braccio il figlio addormentato, non tarda ad offrire una spiegazione per quella splendida sorpresa.

«Siamo arrivati in treno questo pomeriggio in stazione centrale. Abbiamo prenotato una stanza in un albergo vicino casa nostra, hai presente quello che si affaccia sulla piazza del comune? Dopo aver mangiato una cosa al volo, abbiamo portato Mattia al cinema ed infine siamo andati alla messa di mezzanotte. Insomma, è stato un pomeriggio piuttosto movimentato, ma ne è valsa la pena. Sei contento di vederci?»

Giorgio è commosso, ma difficilmente le emozioni positive lo spingono fino alle lacrime. Deve tuttavia schiarirsi la voce prima di ringraziare la figlia per aver fatto tanta strada per lui.

L’uomo si ritrova pochi minuti dopo di nuovo comodamente seduto sulla sua sedia, ma questa volta tiene in braccio il nipote beatamente addormentato. La serenità giunge finalmente a lenire le sue ferite interiori.

«Papà, questo è pane e nduja? Non avevi promesso a me e soprattutto al cardiologo di metterti a dieta?»

«Carla, che dici, non vedi che ci sono pure i peperoni? I peperoni sono verdure!»

La figlia evita di fare la paternale al padre. È la vigilia di Natale e non vuole certo rovinare la bella atmosfera che si è istintivamente creata. Si fa una risata e dà un generoso morso al panino, solo per la soddisfazione di togliere un po’ di salume dallo stomaco di quell’uomo che avrebbe un urgente bisogno di riguardarsi. Prevedibilmente, Giorgio resta a bocca aperta, scoppiando anche lui in una fragorosa risata che finisce per svegliare il nipote.

«Nonno, ciao!»

L’abbraccio di Mattia scioglie definitamente il cuore dell’uomo. Le due persone così distanti per età si fondono in un unico essere, come se fossero legati fin dalla nascita del più giovane.

Poco più tardi, i tre nuovi arrivati si congedano per fare ritorno in albergo.

Giorgio, rimasto nuovamente solo, è ora sereno e sorridente. Quasi quasi potrebbe davvero considerare l’idea di trasferirsi da sua figlia a Roma.

Comodamente disteso sulla sedia, le gambe allungate sulla scrivania, lo smartphone nuovamente sintonizzato sulla serie spagnola, l’uomo si sente di nuovo sereno e completo. Sa che il giorno successivo sarà davvero Natale, per lui e per la sua famiglia. Al futuro penserà dal giorno successivo, per il momento può bastare per guardare con ottimismo al suo futuro.

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I tre leoni

La nostra prima gita di famiglia nella vibrante Bologna risale a sole tre settimane fa. Un tempo tuttavia più che sufficiente per raccontarvi quanto di incredibile è accaduto durante quel weekend, tuttavia riesco solo ora a venire a capo delle emozioni sperimentate.

Sabato mattina abbiamo trascorso un’ora abbondante girando tra i corridoi della collezione di zoologia, gestita dall’Università di Bologna. La visita è stata molto interessante ed intensa, grazie alla notevole varietà di esemplari presenti ed alle reazioni che hanno suscitato in noi.

Sara ha vissuto momenti molto distanti, passando dallo stupore per le dimensioni o l’aspetto di una specie animale, al dispiacere per la triste fine di una creatura che stimolava particolarmente la sua empatia. Infine, come spesso le accade, ha smarrito la capacità di concentrazione: con la scusa di scattare qualche fotografia, si è distratta con il mio smartphone.

Durante il resto della giornata non è più capito che tornasse sugli argomenti di quella visita, perciò non abbiamo minimamente considerato che potesse avere portato con sé qualche emozione particolarmente intensa.

Invece, durante la notte trascorsa nella camera di un hotel, mi sono reso conto di quanto si stesse agitando. Verso le quattro mi ha svegliato parlando nel sonno: sembrava prossima alle lacrime.

«Non voglio, non voglio!» continuava a ripetere.

Non avevo idea di cosa stesse sognando, era tuttavia chiaro che avesse bisogno di essere confortata. La abbracciai pertanto delicatamente, sperando di non svegliarla.

Non riuscii nel mio intento. Dopo qualche istante aprì infatti gli occhi, prendendosi alcuni secondi per capire chi avesse di fronte.

«Papà», disse con tono concitato ma mantenendo un volume appena udibile, per permettere alla mamma che riposava a breve distanza di continuare a dormire.

«Hai fatto un brutto sogno, amore mio?»

«No, non era un sogno, era vero!»

Doveva essere stata un’esperienza particolarmente scioccante per averla spinta a confondere sogno e realtà.

«Ora puoi stare tranquilla, sei qui con me. Cosa hai visto?»

«Ti ricordi i leoni?»

Pensavo che i busti di un leone e due leonesse avessero colpito solo me, grazie alla loro maestosità ed alla credibilità della posa in cui erano stati messi a disposizione dei visitatori. La loro teca era infatti fra le ultime della collezione, al secondo piano, pertanto molti ospiti, incluse mia moglie e mia figlia, rischiavano di arrivare in quel punto ormai stanche e poche predisposte per provare ulteriore stupore.

L’effetto su Sara doveva avere pazientemente covato nel suo subconscio, fino ad emergere con il favore delle tenebre e del sonno.

«Certo, me li ricordo benissimo. Sono venuti a trovarti in un sogno?»

«Ti ho detto che non era un sogno! Era vero!»

Per un attimo fui certo che sua madre dovesse essersi svegliata, considerato il tono di voce che nostra figlia aveva usato. Fortunatamente, si limitò ad agitarsi ed a voltarsi verso la parete opposta.

«D’accordo, ho capito, ma adesso calmati oppure sveglierai tutto l’albergo. Dimmi che cosa hai visto.»

Lessi la commozione nei suoi occhi, più della paura.

«Mi hanno detto che la loro anima è rimasta intrappolata nel museo, non sanno come andarsene e vogliono che io li aiuti. Papà, cosa posso fare?»

Il suo sguardo implorante a sostenere una richiesta così irrazionale, ma al tempo stesso così pregna di umanità, smosse in me un’urgenza di fare l’impossibile per aiutarla. Ma come?

«Sara, l’unica cosa che possiamo fare è guardarci un po’ di televisione, così forse riuscirai a tranquillizzarti e a dormire.»

Speravo che l’attrazione rappresentata dai cartoni animati la distraesse dalla sua priorità, figlia forse dell’agitazione dovuta alla mini vacanza. Mi sbagliavo.

«No, dobbiamo andare al museo, subito!»

 «Cosa stai dicendo? E’ notte, fuori piove e fa freddo. Inoltre, l’esposizione è chiusa. Se vuoi, possiamo parlarne con la mamma domattina e ci allunghiamo lì prima di fare quello che avevamo in programma.»

«Non possiamo, mi hanno detto che di giorno non possono farsi vedere, e noi domani torniamo a casa!»

Mi presi qualche istante per riflettere. Come uscire da quella situazione?

Ricordai che la targhetta dei tre splendidi felini riportava come momento in cui si era concretizzato il loro triste destino un anno risalente a circa un secolo fa. Mentre mia figlia mi osservava, in attesa di una soluzione al suo problema, provai a pensare a cosa avrebbe significato restare intrappolati in un corpo imbalsamato per cento lunghissimi anni. Un brivido violento mi scosse.

«Allora, papà, andiamo?»

Penserete che sarebbe stata una follia assecondare le conseguenze di un incubo appena vissuto da una bambina. Eppure, Sara non aveva mai dato alcun cenno di faticare a distinguere tra sogno e realtà, e per quanto sia una giovane donna molto determinata, quella sua convinzione non mi lasciava affatto tranquillo.

Guardai verso mia moglie. Apparentemente stava ancora dormendo, nonostante il nostro vociare.

«Andiamo in bagno a cambiarci, veloce.»

Ho raccolto in giro per la stanza quanti più vestiti possibile, così che riuscissimo entrambi a ripararci con più strati nel caso in cui il tempo fuori si fosse dimostrato inclemente.

Chiusi nel bagno, abbiamo iniziato entrambi a ridere per l’assurdità della situazione.

Ero sollevato per la ritrovata serenità di Sara, ma non sapevo davvero cosa aspettarmi da me stesso per i minuti a seguire: cosa avrei fatto per tranquillizzarla, quando ci saremmo trovati di fronte le porte chiuse dell’esposizione? Come sarei riuscito a spiegarle che nulla di ciò che aveva sognato era reale?

Poco più tardi, passiamo davanti alla reception dell’hotel. Salutai senza guardare in volto la signora che doveva averci osservato sfilare di fronte a lei con occhi perplessi: se solo avesse chiesto dove fossimo diretti, probabilmente preoccupata per un possibile problema di salute, il semplice fatto di spiegarle qualcosa di vicino alla situazione che stavamo vivendo, me ne avrebbe fatta cogliere tutta l’assurdità.

Purtroppo, l’automobile non era un’alternativa percorribile: la distanza dal parcheggio in cui l’avevo lasciata era di poco inferiore a quella per raggiungere la nostra metà. Ci tocca va a camminare per una ventina di minuti. Una distanza accettabile, non fosse stato per l’orario e per la pioggerellina fredda e a vento che ci stava tormentando.

Alla fine, la passeggiata ci scaldo abbastanza da non patire troppo il clima.

Arrivammo davanti alle porte dell’esposizione, che è parte integrante dell’ università di Bologna, quando erano le cinque meno un quarto di domenica mattina.

«Vedi, sarà, a quest’ora è tutto chiuso.»

«Ok, come facciamo ad entrare?»

La schietta determinazione di mia figlia mi lascia per un istante senza parole: dovevo trovare il modo per non deluderla, pur facendole capire che non c’era proprio nulla di cui preoccuparsi, e che ciò che ci aveva portato i finali non era altro che un brutto sogno.

Mentre la mia mente vagava verso un profumato e caldo piatto di tortellini in brodo, spostavo lo sguardo lungo tutta la facciata dell’edificio per darle l’impressione di essere in cerca di un punto da cui passare per entrare.

Dopo circa tre minuti di perlustrazione (lo ammetto, avrei potuto impegnarmi di più) abbassa i sconsolato il volto verso sarà per comunicarle la nostra sconfitta punto ero pronto a consolarla cercando sulla via del ritorno un antipasto alla colazione dell’hotel, già di per sé piuttosto abbondante, ma che non ci sarebbe stato servita prima di un paio di ore.

Fu in quel momento che mi accorsi dell’espressione esterrefatta di mia figlia. Era completamente catturata da qualcosa che aveva visto al piano superiore, ma cosa?

Non appena si accorse di me, richiamò la mia attenzione verso il suo obiettivo.

«Papà, papà guarda lassù: c’è una leonessa alla finestra!»

Giuro che la sua convinzione nel sostenere quella follia mi spaventò dannatamente: che mia figlia fosse vittima di allucinazioni, o qualcosa di soprannaturale stesse realmente accadendo, in ogni caso dovevo prepararmi a gestire una situazione critica ed imprevedibile.

Alzai di nuovo lo sguardo verso le finestre sopra di noi, che avevo lasciato solo pochi istanti prima non cogliendo alcuna presenza. Certamente non potrete credermi: il volto etereo di una leonessa faceva capolino lassù, come se la presenza del fantasma di un felino fosse così naturale da potersi manifestare in bella vista di fronte ai pur rari passanti.

Il naso al cielo, cercai con la mano mia figlia per  trascinarla via da quella follia, ma non la trovai: era già corso verso uno dei due portoni d’ingresso.

«Sara, dove stai andando?»

«Papà, vieni, entriamo!»

«Ma è tutto chiuso, dove pensi di andare?»

Come non detto: una serratura scattò rumorosamente e ripetutamente, lasciando via libera a mia figlia, che tuttavia si fermò dopo pochi passi per via dell’oscurità.

Arrivai dietro di lei per illuminarle i passi con la torcia del telefono, puntando la lampada in tutte le direzioni per capire chi potesse avere aperto la porta. Non vi sorprenderà più scoprire che non vidi assolutamente nessuno. Non sono un uomo particolarmente impressionabile, tuttavia devo ammettere che le decine di esemplari in mostra mi diedero la sensazione di essere sul punto di aggredirci da un momento all’altro. L’ormai certa presenza di forze al di fuori della mia comprensione aumentava l’effetto scenico, tanto che fui sicuro che un orso ci stesse silenziosamente seguendo.

Salimmo le ampie scale per arrivare al piano superiore, dove ricordavamo di avere incontrato i tre leoni. Gli ultimi passi furono i più impegnativi, per via della tensione che tratteneva entrambi dal conoscere il nostro destino.

Voltando la testa verso destra, scorgemmo una luminescenza che si propagava sopra ad una teca. Non c’era alcun dubbio, si trattava della nostra destinazione.

Trattenni la mia coraggiosa e smaniosa figlia dal correre verso un pericolo ignoto.

«Aspetta, lascia andare avanti me, non sappiamo cosa ci aspetta.»

«Sì che lo sappiamo.»

«Vero, ma questo non mi rende certo più tranquillo.»

Avanzammo lentamente, misurando i passi.

Giungemmo sul lato sinistro della teca, da dove potemmo cogliere il profilo della prima leonessa. Sembrava perfettamente immobile nella sua immutabile ed eterna posa. Ciò avrebbe dovuto tranquillizzarmi, ma il bagliore violaceo che si percepiva chiaramente all’interno dei vetri, pur in assenza di qualsiasi tipo di illuminazione, non poteva certo essere ignorato.

Arrivammo di fronte ai tre maestosi felini. Sara sorrise mettendosi le mani davanti alla bocca, quindi agitò la mano come a ricambiare un saluto. La guardai perplesso, perché a parte la luminosità misteriosa, non coglievo nulla di strano e tantomeno di soprannaturale.

Lei si voltò verso di me: «Papà, non li senti?»

«Assolutamente no. Non sento nessuna voce e non vedo bocche muoversi.»

«Ma no, stanno parlando con la mente!»

«E cosa ti stanno dicendo?»

«Che se vuoi sentirli anche tu, devi guardarli dritto negli occhi.»

Non avrei dovuto dubitare di mia figlia, soprattutto dopo avere chiaramente visto il fantasma di una leonessa alla finestra. Credo sia tuttavia normale diffidare di una materia misteriosa e facilmente mistificabile come il paranormale.

Mi sforzai pertanto con poca convinzione di spostare lo sguardo sugli occhi del leone al centro della ricostruzione. Da quel momento, nulla per me fu più come prima.

“Tu devi essere il padre di Sara.”

La voce profonda che giunse direttamente al mio cervello mi fece sobbalzare. Non potevo più restare ancorato alle mie vecchie condizioni: quelli di fronte a me erano spiriti intrappolati nei corpi di vecchi leoni, catturati in Africa un secolo prima, e si stavano rivolgendo a noi. Proprio come aveva detto mia figlia al suo risveglio.

«Sì, sono io», mi affrettai a rispondere.

«Papà, con la mente, non con la voce!»

Sgridato da una bambina di otto anni per la mia ingenua interazione con un fantasma. Davvero patetico.

“Chiedo scusa, non mi era mai capitato prima di rivolgermi ad un’altra creatura senza emettere suoni.”

Fu la leonessa di destra a tranquillizzarmi: “Non ti devi preoccupare, è perfettamente normale. Altri al vostro posto sarebbero fuggiti terrorizzati. Dovete essere orgogliosi del vostro coraggio.”

Sorridemmo, abbracciandoci per sublimare quel complimento.

Dopo qualche istante di silenzio, fui io a prendere il controllo della conversazione: “Siete venuti a cercare mia figlia in sogno: cosa possiamo fare per voi?”

Rispose la leonessa di sinistra, o quantomeno così mi parve di intendere, considerato che non muovevano la bocca: “Quando siete passati di qui ieri mattina, abbiamo capito che in voi risiedono sentimenti fuori dal comune, anche se forse non siete in grado di capirlo. Siamo intrappolati qui ormai da troppo tempo, abbiamo bisogno di lasciare che le nostre anime trovino la pace.”

Il leone spiegò più concretamente la loro richiesta: “Dove tornare con noi in Africa, al momento della nostra fine come esseri viventi. Dovrete convincere il cacciatore a non farci del male, così che l’odio ed il disprezzo che ha caratterizzato i nostri ultimi istanti di vita si disperda, ed i nostri spiriti possano proseguire il loro viaggio.”

Sara aveva un dubbio molto razionale: “Come facciamo a tornare indietro nel tempo, e soprattutto in Africa?”

“Sarà un viaggio della mente, ci vorranno pochi istanti.”

La mia preoccupazione era invece ben differente: “E se il cacciatore non ci desse retta, ed anzi dovesse farci del male?”

I tre leoni non risposero.

Conclusi io il loro pensiero: “Anche i nostri spiriti sarebbero destinati a vagare per l’eternità.”

La leonessa di destra mostrò tutta la sua profonda tristezza: “Hai perfettamente ragione, è un sacrificio enorme quello che vi stiamo chiedendo, ma voi siete esseri umani, e siamo sicuri che il cacciatore vi starà ad ascoltare. E se anche non lo facesse, non oserà farvi del male.”

Era davvero troppo da rischiare, soprattutto perché avrei portato Sara con me. Se anche l’avessi tenuta nascosta, qualora mi fosse accaduto qualcosa l’avrei lasciata completamente sola.

“Mi dispiace. Lo dico con tutto il cuore, ma non posso mettere a repentaglio la vita di mia figlia.”

Anche se le espressioni dei tre volti di fronte a noi non mutarono, ebbi la netta impressione che fossero stati avvolti dalla tristezza per l’impossibilità di darmi torto.

All’improvviso, la leonessa di sinistra intervenne: “Ho un’idea: il nostro branco proteggerà Sara! Quel giorno c’erano oltre venti leoni con noi. E poi, chissà: vedere una bambina in mezzo a noi potrebbe stupire così tanto il cacciatore da convincerlo a non sparare.”

Mia figlia intervenne in loro supporto, con la tipica incoscienza infantile: “Papà, ti prego, non mi succederà niente di male!”

Riflettei per qualche istante, prima di rispondere: “Ci ritroveremo nel pieno dell’attacco?”

Il leone mi rassicurò: “Assolutamente no, con uno sforzo di memoria da parte di tutti e tre riusciremo a riportarvi una decina di minuti prima che tutto accada. Noi riprenderemo possesso dei nostri corpi e vi aiuteremo, anche se non potremo più parlarvi con la mente.”

“Bene, dovrei poter scorgere il cacciatore che si avvicina ed andargli incontro prima che tutto si compia. E se dovesse ignorarmi, qualcuno di voi dovrà attaccarlo alle spalle.”

“D’accordo, il piano ci piace.”

Sara era eccitatissima, mentre ero in preda al timore di essermi fatto coinvolgere in qualcosa di troppo grande e lontano dalle mie esperienze.

Dopo un paio di minuti di profonda concentrazione, la luce violacea si diffuse per tutta l’aria intorno a noi, divenendo una vera e propria nebbia colorata.

Quando svanì, ci ritrovammo nella savana africana. Ci sorprese un sole non eccessivamente caldo ma decisamente più intenso rispetto alla penombra della sala da cui provenivamo.

Intorno a noi, prati a perdita d’occhio e qualche sparuto albero. Ad un centinaio di metri di distanza riuscii a scorgere il branco.

Quattro leonesse e due leoni si staccarono dagli altri per venirci incontro. Se avessero perso il controllo, non sarei riuscito a proteggere mia figlia.

Fortunatamente, non si mostrarono per nulla aggressivi, anzi: ci annusarono ed iniziarono a giocare con Sara, come cuccioloni divertiti dalla presenza di un nuovo amico umano.

Nel frattempo, guardavo in ogni direzione per cogliere segni dell’arrivo del cacciatore. Non c’erano molti punti in cui nascondersi e sparare da distanza, e forse la nostra presenza aveva persuaso l’uomo già appostato ad andarsene.

Vidi improvvisamente una jeep arrivare da dietro una collina. Spense il motore non appena colse la presenza del branco. Un uomo caucasico ed una probabile guida del posto scesero silenziosamente, imbracciando un fucile a testa.

Come promesso, Sara si allontanò scortata verso il gruppo, mentre io mi incamminavo incontro ai miei simili.

“Buongiorno, signori.”

Il cacciatore mi squadrò dalla testa ai piedi: “Chi siete? E come siete vestito?”

Per fortuna si trattava di un italiano.

“Vengo dal futuro, se siete disposto a crederlo, e questo un normale abbigliamento dei nostri tempi. Ora, vi devo chiedere un’enorme cortesia: dovete lasciare in vita quei leoni. Fra diversi anni da oggi, molte specie nella meravigliosa Africa rischieranno di scomparire a causa della caccia. Potrà sembrarvi poca cosa la cattura di qualche esemplare, ma come voi esistono diverse persone che per pura sfida stanno decimando queste maestose creature.”

“Non credo ad una sola parola di quanto state dicendo. Lasciatemi passare, e badate a non distrarre i leoni con il vostro cianciare, o vi ci lascio in pasto.”

“Pensate che abbia bisogno della vostra protezione? La vedete la bambina laggiù? E’ mia figlia. Il branco l’ha accolta, non abbiamo nulla per cui temere.”

“Non dite assurdità. Eppure… E’ proprio una bambina. Straordinario, com’è potuto accadere?”

“Abbiamo fatto in modo che i leoni non ci percepissero come una minaccia, né come una preda, ma solo come creature amichevoli.”

L’uomo rise fragorosamente: “Ora ne ho sentite a sufficienza. Non so quale stregoneria stiate architettando, ma quelle belve così mansuete da non cacciare una bambina indifesa saranno una più che facile preda.”

Il cacciatore mosse due passi verso un albero, dietro al quale aveva intenzione di posizionarsi per un colpo con ottima visuale.

Non feci in tempo ad avvertirlo del rischio che stava correndo: il leone che aveva chiesto il nostro aiuto arrivò alle sue spalle, disarmandolo e ruggendo tutta la sua rabbia.

Guardai negli occhi la sua guida, ai cui fianchi era arrivato un altro felino dall’imponente criniera: “Fossi in te, lascerei cadere il fucile.”

Non capì le mie parole, ma ne colse perfettamente il senso.

In men che non si dica, entrambi furono sulla jeep avviata a folle velocità verso la collina da cui erano venuti.

L’intero branco ruggì festoso, grato per il rischio che era stato evitato.

Sara mi corse incontro, orgogliosa: “Papà, sei stato bravissimo!”

“Grazie, ma senza l’aiuto di queste incredibili creature, non sarebbe stato affatto così semplice.”

Ci abbracciammo, quindi tre leoni ci vennero incontro per ringraziarci, pur se a modo loro. Appoggiamo le nostre fronti alle loro, ritrovandoci dopo pochi istanti di nuovo all’esposizione, avvolti nella nebbia violacea che si estinse completamente.

Un eco si spense lentamente nell’aria: “Grazie, e addio…”

Riuscimmo nell’impresa di uscire senza farci arrestare dalla polizia, tornando in albergo dove ormai si stava servendo la colazione. Telefonai in camera, convincendo mia moglie ad alzarsi ed a scendere.

Arrivò da noi piuttosto innervosita per la brusca sveglia.

«Scusate, ma dove eravate finiti?»

Io e Sara ci guardammo in volto, sorridendo complici: «Non si può dire, e anche se lo facessimo non ci crederesti.»

«Spero per voi che abbiate dormito a sufficienza, perché oggi vi toccherà camminare parecchio.»

Il nostro umore crollò all’istante, ma in fondo anche la domenica fu piacevole, pur se stancante.

Tornammo a casa quella sera stessa, addormentandoci un secondo dopo avere toccato il cuscino.

Ho deciso di mettere nero su bianco questa incredibile avventura al solo scopo di non lasciare che il ricordo si perda nel tempo, so perfettamente che nessuno fra coloro che leggerà queste pagine crederà ad una sola parola. Non ha importanza, è sufficiente che le emozioni che ho lasciato trasparire vi siano almeno in parte arrivate, e che rimangano con noi per sempre, nella speranza che i tre leoni incontrati alla collezione di zoologia di Bologna possano avere trovato finalmente la pace.

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Giorni da dimenticare

Clara lasciava scorrere l’acqua della doccia tutt’intorno al suo corpo ed alla sua anima. Aveva fatto sostituire il suo soffione con uno a getto ampio, così che l’avvolgesse completamente.

Il risultato era soddisfacente, perché le permetteva di isolarsi dall’universo che in quei giorni aveva deciso di farle male.

Immaginò di ritrovarsi sotto ad una cascata. L’acqua insolitamente calda la cullava, trasportandola verso la pace dei sensi. Il rumore di quel flusso costante le permetteva di isolare i suoi pensieri, lasciandoli laggiù da dove lei era venuta.

Aprì virtualmente gli occhi. Sapeva che intorno a lei c’era una enorme concavità aperta in un vulcano dormiente, insenatura che consentiva quella caduta liquida benefica dal lago che si era formato sulla sommità della montagna temporaneamente quieta.

Di fronte a lei, il terreno scendeva verdeggiante fino a raggiungere lo splendido mare delle Hawaii, qualche centinaio di metri più in là. In quel momento non aveva voglia di andare a tuffarsi, voleva godersi fino in fondo la sensazione di isolamento.

Percepiva infatti un forte blocco all’idea di uscire dal confine della cascata. Era come se un pericolo la stesse aspettando, ma non ricordava quale, ed il solo pensiero l’agitava terribilmente. Era pertanto molto meglio non pensarci e continuare a godere del flusso senza sorprese che le accarezzava la testa, le spalle ed il resto del corpo.

Improvvisa e del tutto inattesa, una lacrima si fece largo fra le gocce d’acqua esterne al suo corpo. Non se ne sarebbe mai accorta, se non avesse avuto la consapevolezza che la sua ghiandola lacrimale si era attivata senza apparente ragione. Maggiore fu la sorpresa quando si rese conto di come entrambi gli occhi si stessero tramutando in torrenti in piena. Un dirompente moto di sconforto che si fuse con l’acqua che la circondava, ma che non riusciva più ad isolarla dalle emozioni dell’esterno.

Visse un istante di forte disagio, quando capì che non c’era luogo al mondo in cui desiderasse stare: quella negatività che era giunta fino a lì l’avrebbe spinta fuori dalla cascata, ma conosceva bene il male che l’attendeva una volta uscita, perciò non osava mettere un piede fuori da lì.

Si sforzò di respirare profondamente l’aria colma di umidità. Riprese il controllo delle sue pulsazioni e delle emozioni. Si concentrò sulla meraviglia che aveva intorno a sé, sulla bellezza di quel mare che avrebbe raggiunto in una ventina di minuti con l’auto a noleggio. Meritava tanto splendore, lo sentiva.

Riuscì a sorridere.

Si concentrò su qualcosa di semplice, ossia sulla percezione delle singole gocce che le scorrevano dalle spalle alla schiena. Ne scelse qualcuna la cui sensazione fosse più intensa, vera o frutto della sua immaginazione che fosse. Non era importante, ciò che contava era il risultato.

Dopo un paio di minuti, la piacevole semplicità di quel gioco andò spegnendosi, lasciando che un’immagine si frapponesse tra i suoi occhi ed il panorama tropicale. Era un volto, e si trattava di uno fra i pensieri che aveva cercato di respingere fino ad allora con maggiore forza.

L’impatto fu violento e devastante sulla sua anima. Clara si piegò su sé stessa, piangendo ed urlando la sua rabbiosa disperazione. Lasciò che il suo corpo venisse scosso dai tremori, finché non si sentì pronta a riprendere il controllo delle emozioni. Quel volto, tuttavia, non voleva saperne di andarsene.

La donna si concentrò su di una fantasia nella fantasia. Immaginò sé stessa che ricordava sotto la cascata hawaiana i momenti in cui era stata felice. Riportò alla mante ciò che più l’aveva resa orgogliosa di sé e del suo carattere, della sua capacità di prendere decisioni nei momenti critici. Come per chiunque si ritrovi a costruirsi una vita adulta, prima di quella maledetta settimana aveva dovuto compiere delle scelte importanti. Tutto sommato, non aveva mai commesso dei veri e propri errori di valutazione. Grazie a ciò, poteva dire di avere vissuto una vita serena e soddisfacente.

Un sorriso di intimo rispetto fece capolino sulle sue labbra, conseguente alla rinnovata consapevolezza di non essere poi tanto male come essere umano.

Il masochismo della sua anima si fece di nuovo largo nel suo viaggio virtuale, riportandole alla coscienza brandelli importanti di quanto era accaduto negli ultimi giorni. Sembrava proprio che non ci fosse una pozione magica per lenire lo sconforto, era destinata a soffrire in eterno, in quell’isolamento che aveva tanto bramato, ma che in quel momento le si stava rivoltando contro.

Improvvisamente, un tocco ed un successivo abbraccio la riportarono dall’isola tropicale alla realtà della sua doccia.

Un volto comparve davanti ai suoi occhi, prima che si posasse sulla sua spalla con un gesto di affettuosa confidenza.

«Mamma, adesso ci sono io con te.»

Clara si sciolse in quel contatto, fondendosi con sua figlia. Non era più tempo di isolarsi dall’universo, perché sentiva di meritare di vivere pienamente il rapporto con una figlia che aveva cresciuto così bene. Lei sarebbe stata la sua ancora di salvezza per restare aggrappata alla vita reale.

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Il Mago del panino

«Forza, Cloe, è ora di prepararci!»

È iniziata con una frase scontata e prevedibile, la nostra incredibile serata di Halloween.

In verità, il punto di partenza è arrivato dalla passione per i social di mia moglie, tramite i quali ha scoperto che in una frazione del paese vicino al nostro si tiene da anni l’evento Ruginelloween. Le vie vengono chiuse ed allestite per celebrare una festa esplosa negli Stati Uniti del XX secolo, e che negli ultimi anni ha preso piede anche da noi. Vengono realizzati nelle corti più spaziose degli spettacoli di intrattenimento non solo per i più piccoli, inoltre i giardini vengono addobbati ed arricchiti da figuranti per sorprendere i partecipanti.

Non sapevamo davvero cosa aspettarci, essendo la nostra prima occasione, ma prima di scoprirlo era necessario provvedere al travestimento.

Mentre mia figlia ha scelto di puntare sul tema Dìa de muertos, io mi sono ritrovato per le mani un’improbabile capigliatura alla Pennywise. Finito di dipingere i rispettivi volti e constatato quanto lei fosse assolutamente adorabile, ed io prevedibilmente ridicolo, siamo saliti in macchina per coprire la breve strada verso la sede dell’evento.

Ci siamo ritrovati nel bel mezzo di una folla composta da bambini e ragazzi entusiasti, genitori incuriositi ed altri adulti senza minori ma desiderosi di trascorrere una serata diversa dalle solite.

Cloe si è unita con piacere all’eccitazione dei coetanei. Abbiamo passeggiato fra le attrazioni con andatura accelerata dalla frenesia di scoprire quanto ci fosse di spaventoso, oppure semplicemente di divertente.

Abbiamo così ammirato piccoli cimiteri animati da zombie, scimmie ballerine rese folli dall’oscurità improvvisa, il laboratorio del Dottor Frankenstein, carrellate di favole dedicate ad Halloween e tanto altro.

La nostra visita, iniziata nel tardo pomeriggio, si è protratta fino all’orario di cena. Gli altri ospiti non hanno certo aspettato noi per mettersi in fila ai punti di ristoro, perciò ci siamo ritrovati di fronte una coda di persone affamate ad ogni attività che abbia solleticato il nostro palato.

«Papà, io ho fame, e ho anche freddo.»

Cloe ha ragione a lamentarsi, sono ormai le otto e mezza di sera e, grazie al passaggio all’ora solare, il suo organismo è abituato a considerarsi un’ulteriore ora in avanti. In più, il fresco serale unito all’umidità per la pioggia di quel pomeriggio non rendono certo piacevole l’attesa.

Prendo perciò nuovamente in mano la mappa dell’evento. Mi cade l’attenzione su di un fantomatico Mago del panino, probabilmente un ambulante fra i tanti presenti, in una posizione un po’ più defilata rispetto alla piazza in cui si sono concentrati gli altri colleghi.

«Vieni, andiamo a vedere se qui si riesce a prendere un hot dog senza dover aspettare troppo tempo.»

Cloe non è molto convinta, ma mi segue pazientemente.

Percorriamo con passo spedito la distanza che ci separa dalla nostra meta. Questo sia per la fame e la voglia di scoprire se avremo soddisfazione, sia per togliere l’umidità dalle articolazioni e che sta facendo tremare mia figlia da qualche minuto. Forse le calze collant non sono state una grande idea, ma per un travestimento ben riuscito sono spesso necessari dei compromessi rispetto al confort.

Raggiunto il punto che ho individuato sulla piantina, non troviamo nulla. È una via di forte passaggio fra due delle attrazioni principali, a poca distanza da un bar aperto per l’evento, perciò non mi aveva stupito trovare quel riferimento in una zona lontana da altre rivendite di panini o pizze, ma certo mi sorprende il fatto di non trovare assolutamente nulla in corrispondenza del numero 21.

«Papà, qui non c’è niente! Io ho fame, e non ho voglia di camminare di nuovo indietro fino alla piazza per fare la coda.»

«Cloe, non abbiamo molte alternative. È possibile che nel frattempo le file siano diminuite. Altrimenti, torniamo a casa e ti preparo qualcosa al volo.»

«Ma perché il signore dei panini se n’è già andato via? C’è ancora tanta gente alla festa.»

«Non lo so davvero, ma se provo a pensare a quando siamo passati di qui un’ora fa, in effetti non mi ricordo nessun ambulante. Forse ha avuto un problema e non è proprio riuscito a venire. Vorrei essermene ricordato quando abbiamo lasciato la piazza.»

Mi guardo intorno per qualche istante, mentre mia figlia sconfortata aspetta che sia io a prendere una decisione.

Poi, l’attenzione di Cloe si sposta su di un particolare.

«Papà, guarda, c’è il numero 21 su quella casa.»

Mi volto verso la villetta che ha attirato la sua attenzione, proprio accanto a dove avremmo dovuto trovare il Mago del panino.

«È il numero civico, è un caso che corrisponda con il riferimento sulla mappa.»

«Ma no, papà, quello che dici tu è lì sul cancelletto, questo è stato messo per la festa!»

«Hai ragione, ma è solo una decorazione, ti dico che non c’entra con quello che stiamo cercando.»

Qualcosa, tuttavia, mi spinge ad avvicinarmi a quel quadrato colorato di arancione con una scritta nera a contorni bianchi. Sopra al numero campeggiano infatti alcune parole.

“Il mago del panino”

«Hai visto, papà?»

Cloe è arrivata a fianco a me per leggere il piccolo cartello. Che senso ha tutto ciò? Non c’è nessuna scritta più evidente che attiri l’attenzione dei clienti, inoltre le luci della villetta sembrano completamente spente.

«Deve essere uno scherzo, anche perché non avrebbero proprio motivo di allestire un’attrazione senza farla trovare ai visitatori. O forse volevano mettersi sul marciapiede i proprietari della casa, ma alla fine hanno rinunciato.»

Non so proprio cosa pensare, ma in fondo non ha importanza: è la conferma che in quel luogo non c’è una cena per noi.

«Proviamo a suonare il citofono?»

Cloe non demorde. Vede quell’ultima possibilità come estremamente più desiderabile rispetto ad una nuova coda, oppure al rientro a casa dove ci aspetterebbero gli avanzi del pranzo o al più una minestra. La donna di casa è infatti volata a trovare un’amica in un’altra regione, perciò non potrebbe assisterci con una cena d’emergenza.

«Non ho voglia di disturbare queste persone, penseranno che siamo due impiccioni che hanno deciso di ignorare la festa per fare dolcetto o scherzetto per le strade del paese.»

«Allora suono io.»

Mia figlia allunga decisa il dito verso il citofono, su cui noto solo allora che al posto del nome dei proprietari, si può leggere molto in piccolo quello dell’attività misteriosa.

Percepiamo in lontananza il suono attivato da Cloe che si propaga per la casa di fronte a noi.

Mentre sto per comunicare con un certo sollievo alla giovane stanca ed affamata accanto a me che non c’è nessuno nell’abitazione, una voce dal timbro profondo ci accoglie con un semplice, lento e trascinato: «Sì?»

Un brivido mi corre lungo la schiena, ma in fondo siamo ad Halloween, sicuramente anche quell’uomo si è fatto prendere dal tema del giorno.

Mia figlia non è minimamente turbata dalla situazione.

«Signor Mago del Panino, posso avere un hot dog?»

Qualche istante ci separa dalla risposta, che in effetti non arriva dalla sua voce, ma dallo scatto di apertura del cancelletto.

Cloe entra senza esitazione, mentre io mi guardo intorno. La via è insolitamente deserta, pur se fino a pochi minuti prima c’erano ancora diverse persone di passaggio verso le attrazioni della zona.

Come se ci trovassimo in un film horror si serie B, la porta d’ingresso si apre cigolando rumorosamente. All’interno, quello che sembra essere un salotto è buio, e nessuno sembra essere arrivato ad accoglierci.

Il bisogno di proteggere mia figlia mi spinge a voltarmi verso la direzione da cui siamo arrivati.

Mentre sto per appoggiare una mano sulla spalla di Cloe, la stessa voce che avevamo udito al citofono mi costringe a girarmi di nuovo su me stesso. Giunge dalla scala che porta al piano superiore, unitamente ad un volto illuminato da una torcia in una classica zucca di halloween. Molto scenografico.

Può sembrare assurdo, ma a quel punto ho iniziato a rilassarmi: quei riferimenti alla ricorrenza che si festeggiava quella sera erano così evidenti e scontati, che accettai di essere semplicemente entrato nella migliore rappresentazione che avessimo incontrato quella sera. Era davvero un peccato che fosse così mal segnalata, ma forse si trattava di un modo per evitare che si formassero cose rumorose, rendendo molto meno efficace l’atmosfera.

«Buonasera. Perdonate la scortesia dell’accoglienza al buio, purtroppo la lampadina si è fulminata poco fa ed a causa dei festeggiamenti non ho modo di lasciare il paese, se non questionando con le nostre validissime forze dell’ordine. Rimedierò domani, ma nel frattempo vi devo chiedere di seguirmi al piano superiore.»

Osservo per un istante quell’uomo che ci precede sulla scala. Sarà alto un metro e novanta, una sparuta capigliatura nera in ciuffi sopra le orecchie, una corporatura esile nel costato e nelle gambe, ma piuttosto importante nel ventre. Lo vedo claudicare leggermente, parendo soffrire nell’appoggio della gamba destra.

Cerco di immaginarlo saltellare dietro al bancone di un furgone per la ristorazione ambulante, intento a servire giovani clienti in piena notte con fare spiccio ed un po’ di sana ironia: l’esatto opposto della messinscena a cui stiamo assistendo, perfetta antitesi recitativa del suo reale essere.

Raggiungiamo il piano superiore, dove veniamo investiti da un profumo di carne che rosola in padella.

«Anita, ci sono clienti», annuncia stancamente l’uomo verso la cucina, da cui fa capolino una curiosa signora dagli ampi riccioli rossicci, con spessi occhiali ed un sorriso reso inquietante dalla manciata di denti sfortunatamente rimastile. Evidentemente sono entrambi maghi del panino, pur con funzioni differenti.

«Benvenuti! Accomodatevi, prego, prego!»

La signora, che deve avere un’altezza poco superiore a quella di mia figlia, non accenna ad abbandonare il suo piccolo regno, restando a seguire i nostri passi verso la tavola da pranzo con la sola testa sporgente dall’uscio.

Il nostro singolare cameriere riprende ad interessarsi a noi, che nel frattempo abbiamo tolto le giacche e le abbiamo appoggiate alle nostre sedie, grazie ad un piacevole tepore che giunge dalla stufa a pellet.

«Cosa possiamo umilmente servirvi, signori?»

Cloe risponde con entusiasmo. Nonostante la prima vista dell’uomo l’avesse fatta rabbrividire, la fame le ha imposto di riprendere il controllo sulle sue emozioni. In fondo, si tratta solo di una messinscena.

«Io vorrei un hot dog ed una lattina di coca, per favore!»

Evidentemente un minimo di timore reverenziale deve esserle rimasto, perché è la prima volta da mesi che le sento utilizzare un’espressione educata con uno sconosciuto.

L’uomo la guarda dritta negli occhi, mentre risponde: «Molto bene, signorina, devo solo avvisarti che potresti trovare il würstel differente rispetto al solito, perché lo produciamo artigianalmente, ma non dubito che lo gradirai.»

Rifletto sul fatto che una battuta sulla salsiccia fatta con le dita di un bambino, oppure sulla cola al sapore di sangue, avrebbero completato l’atmosfera prevedibilmente costruita nella direzione in cui una bambina se lo sarebbe aspettato. Cloe ha comunque troppa fame per risentirsene, perciò annuisce con vigore, anche se inizio a temere che mi ritroverò a dover finire il suo hot dog artigianale.

«Per lei, signore?»

Decido di provocarlo oltre quanto il mio carattere consentirebbe: «Si potrebbe gustare il manicaretto di cui sentiamo il profumo? Oppure si tratta della vostra cena?»

L’uomo resta per un istante a bocca aperta, volgendo lo sguardo verso la moglie che adotta la stessa espressione stupita ed incerta su come gestire la situazione.

Mi affretto a toglierli d’impiccio: «Non vi preoccupate, stavo solo scherzando, scusatemi. Poiché temo che mia figlia non finirà il suo panino, vi chiedo solamente di prepararmi qualcosa di diverso: cosa avreste che vi sia di minor impiccio possibile?»

Una lieve e nervosa risata esce dalla bocca dell’uomo prima che possa rispondermi: «Non si deve scusare. È solo che si tratta di una ricetta un po’ particolare, con un ingrediente che custodiamo gelosamente. Di fatto sembrerebbe solo carne trita, ma le assicuro che qualora volesse provarla e dovesse piacerle, non potrebbe farne a meno.»

«Mi sta tentando, ma non volevo mettervi in difficoltà come avevo l’impressione di avere fatto con la mia richiesta.»

Un sorriso si apre sulle sue labbra, anche se lo sguardo nei suoi occhi sembra comunicare tutt’altra disposizione d’animo: «Se ci ha visti esitare, è solo perché molte persone poco avvezze alla sperimentazione di nuovi gusti non apprezzano questo piatto. Se tuttavia lo vuole comunque provare, possiamo servirglielo semplicemente saltato in padella ed accomodato in un panino insieme a due fette di peperone del nostro orto, preparato in agrodolce.»

È forse più probabile che sarò io a non finire quanto mi ritroverò nel piatto, ma ormai il dado è tratto. Accetto pertanto la proposta, accompagnandola con una birra commerciale in bottiglia.

Ci rendiamo conto di avere toccato più volte il trucco con le dita, perciò chiediamo di poter usare il bagno. Per fortuna, almeno quella porta sembra non cigolare rumorosamente.

Mentre attendo che mia figlia finisca di lavare le mani, do un’occhiata fuori dalla finestra, restando perplesso.

«Lì non c’era la strada da cui siamo venuti?»

Cloe si affaccia al vetro: «Hai ragione, non c’era nessun bosco da quella parte. Papà, cos’è successo?»

Mi piacerebbe avere certezze per mia figlia, ma non mi è davvero possibile: «Non lo so, piccola, non lo so davvero. Forse abbiamo perso l’orientamento salendo la scala, ma non mi sembra proprio che dietro questa villa si aprisse un parco.»

Usciamo dal bagno perplessi, dopo che ho chiesto a Cloe di non fare domande alla curiosa coppia che ci sta ospitando. Sicuramente c’è una spiegazione per quella stranezza, ma quelle persone stanno alimentando un folkloristico condizionamento mentale a cui non voglio fornire alcun ulteriore assist.

Pochi istanti più tardi, le nostre portate escono dalla cucina e vengono servite in eleganti piatti di ceramica, contrastanti con la semplicità delle pietanze. Anche le bibite vengono versate in raffinati calici di cristallo lavorato, i contenitori originali posati accanto su elaborati sottobicchieri in pizzo a testimoniare la provenienza originale delle bevande.

Vorrei assaggiare l’hot dog di Cloe per sincerarmi che non si tratti di nulla di pericoloso, ma non ne ho il tempo: lei lo ha addentato pressoché nell’istante successivo all’arrivo a tavola.

La prima espressione che leggo nei suoi occhi è puro disgusto, tanto che mi concentro su quali siano le mie opzioni per evitare una brutta figura, qualora stia per rigurgitare il boccone. Un battito di ciglia più tardi, mia figlia spalanca gli occhi in preda a pura estasi.

«Ma è buonissimo!»

Il nostro cameriere si apre in un ampio sorriso accompagnato da un accenno di inchino: «Sono contento che sia di tuo gradimento.»

Bene, sembra che in fondo non ci sia nulla da temere.

Il mio panino è indubbiamente invitante. Il profumo che risale dal ragù mi riporta ai pranzi della domenica in famiglia, mentre i peperoni dell’orto in agrodolce mi attraggono per scoprirne la costellazione di sapori. Il pane di farina integrale pare fresco e fragrante, nonostante l’umidità del giorno.

Prendo un ampio morso, riempiendomi la bocca di sapori. Una spezia sembra fare capolino, desiderosa di emergere ma incapace di farsi riconoscere: deve essere il famoso ingrediente segreto. Sono stupito, decisamente stupito. Si tratta di un panino all’apparenza semplice, ma che trabocca di sapori contrastanti eppure così in armonia fra di loro.

Alzo lo sguardo verso il nostro ospite, non appena la masticazione mi consente di parlare: «Devo essere sincero, non ho mai assaggiato un panino più buono. E dire che negli ultimi anni la cultura del cibo mordi-e-fuggi è cresciuta in qualità, ma qui siamo su tutt’altra categoria.»

In un cantuccio della mia mente cercano di emergere i timori predominanti fino a poco prima, ma ora sono completamente subordinati alla nuova priorità: appagare il palato con quella assoluta meraviglia.

Guardando Cloe, mi accorgo che anche lei sta provando sensazioni simili alle mie. Temo che il prezzo di quelle portate sarà notevole, altrimenti non potrebbero giustificare la qualità della materia prima, ma ne varrà assolutamente la pena. Le riflessioni sulla mancanza di insegne evidenti, sul fatto che ci troviamo nel salotto di casa loro, sulla mancanza di qualsiasi forma di ufficialità quale un menu o un cassa finiscono in secondo piano.

I nostri piatti si concludono. Sia io che Cloe viviamo un momento di totale soddisfazione: sembra infatti che anche le quantità siano state perfette, sufficienti a saturare il bisogno di sfamarci ma senza appesantirci negli ultimi morsi.

Avrei mille domande da fare all’uomo per lodarlo sulla loro abilità in cucina, ma anche questi spunti vengono bloccati dal mio stato cosciente.

Cala pertanto un silenzio sempre più imbarazzato, per colpa di quella mia incapacità di formulare ulteriori pensieri. Inizio a sentirmi vagamente angosciato, perché c’è qualcosa di poco naturale in quella opposizione interiore al flusso spontaneo del mio ragionamento.

Guardo l’uomo in piedi di fronte a noi, per coglierne qualche espressione o segno che possa aiutarmi a capire se stia accadendo qualcosa di cui dovrei preoccuparmi.

Quando i nostri sguardi si incrociano, lui riprende a parlare con voce vellutata: «Bene, spero che la cena sia stata di vostro gradimento. C’è altro che possiamo fare per voi?»

Il nostro misterioso cameriere sta chiaramente chiedendoci di concludere la nostra visita, ma non ho nessuna obiezione a riguardo.

«La ringrazio, va benissimo così.»

Poi, un barlume di lucidità fa breccia nella mia mente evidentemente ottenebrata, tentandomi all’idea di metterlo in difficoltà: «Se vuole lasciarmi qualche riferimento, sarei felice di farvi pubblicità.»

Lui alza lo sguardo verso di me, dopo averlo abbassato per raccogliere i piatti ormai desolatamente vuoti.

«Non si deve preoccupare, non amiamo essere cercati, sappiamo farci trovare da chi riteniamo meriti la nostra cucina.»

Non saprei dire cosa sia passato fra gli occhi e le righe d’espressione di quella strana creatura: orgoglio? Fastidio? Eppure, in fondo si tratta di un complimento, se è vero che siamo stati ritenuti meritevoli di provare i loro piatti.

«Come preferisce. Posso pagare questa deliziosa cena, così togliamo il disturbo?»

«Prego, seguitemi.»

L’uomo passa i piatti alla moglie, che ci saluta con la mano libera mentre la testa riccioluta esprime nuovamente la sua felicità di averci avuti come ospiti.

Seguiamo il padrone di casa lungo le scale, dopo che la lanterna a forma di zucca è stata recuperata da una mensola. Invece di fermarci al piano terreno, l’uomo prosegue svoltando di centottanta gradi, iniziando un’ulteriore discesa.

«Mi scusi, dove stiamo andando?»

«Venite, venite, non abbiate timore: teniamo la cassa al piano di sotto perché di tanto in tanto organizziamo festicciole quaggiù.»

Forse avrei visto la parvenza di un locale dove accogliere dei clienti. Mi avrebbe indubbiamente restituito un po’ di fiducia in quella che all’inizio era parsa come una messinscena, ed era proseguita come un’attività di alto livello ma allo stesso tempo del tutto improbabile, senza il minimo interesse per l’acquisizione di clientela.

Entriamo dietro l’uomo, che deve abbassare la testa per fare il suo ingresso dalla porta in quella che ha l’aria di una semplice ma ampia taverna.

Lì sotto la luce fortunatamente funziona. Troviamo due tavoloni di legno semilavorati, perfetti per una serata conviviale, con panche larghe e di pregevole fattura che probabilmente non rovinano la cena con la loro scomodità come le loro versioni più a buon mercato. Sul lato della stanza, un miscelatore per birre alla spina mi fa desiderare di organizzare un evento in quel luogo, perché no: potrei tenere lì la festa per l’uscita del prossimo romanzo, che in quel momento prevedo per una quarantina di giorni più avanti.

«Papà, non mi sento molto bene, mi fa male la pancia.»

Cloe mi distrae con la sua vocina supplicante. Evidentemente, il freddo patito prima di cena deve avere avuto il suo effetto.

«Vieni, piccola, ti accompagno io in bagno al piano di sopra.»

Con mia grande sorpresa, la moglie del nostro accompagnatore è giunta alle nostre spalle esattamente nel momento in cui c’è bisogno di lei. Ancora più difficile a credersi, mia figlia le ha dato la mano senza esitazioni ed è salita con lei verso il bagno.

Sto per fare un passo verso di loro, quando il padrone di casa mi mette una ferma e decisa mano sulla spalla: «Possiamo parlare del pagamento?»

Parlare? Di cosa dovremmo discutere? Il conto sarà forse relativamente salato, ma non è certo nulla che non mi possa permettere per due panini e due bibite. Anche perché, in caso contrario, una bella denuncia non gliela risparmierei sicuramente.

«Quanto le devo?»

«Caro ospite, lei certamente ha letto quanto chiaramente riportato nel nostro menu, voglio sperare.»

Eccoci, è arrivato il momento di litigare. Spero solo di riuscire a risalire verso mia figlia in pochi istanti.

«Non so di cosa stia parlando. Mi lasci andare da mia figlia.»

Do uno strattone con la spalla per svincolarmi dalla sua presa. La sua voce non accenna ad arrestarsi, trattenendomi in quella taverna.

«Sua figlia sta perfettamente bene, mal di pancia permettendo. Ma le assicuro che non è colpa della nostra cena. Mi permetta di mostrarle ciò a cui mi riferisco, quando parlo di menu.»

Saliamo nuovamente al piano terra. Lo seguo come rapito dalla sua aura, vorrei scappare dalla sua presenza ingombrante ma qualcosa mi calamita intorno a lui.

«Ecco, guardi sul vialetto che dal cancello porta all’ingresso.»

Osservai la pavimentazione di fronte a casa. Illuminata dai fiochi lampioni, compare una scritta a cui all’arrivo non avevo fatto minimamente casa. Fatico a leggerla, essendo riportata a vantaggio di chi entri.

“Colui che entrerà in questa casa per consumare del cibo, ripagherà il conto con la sua anima!”

«E questo cosa vorrebbe dire? Anche qualora lo avessi letto, lo avrei preso per uno scherzo di Halloween.»

La sua figura si fece se possibile ancora più alta, raddrizzandosi ed allargando le braccia. La voce giunse a me con una forza ed un’intensità in netto contrasto con la mitezza quasi svogliata di prima.

«Questo le sembra forse uno scherzo? Pagherete con la vostra anima, sarà nostra per sempre!»

Una risata spettrale mi fa gelare il sangue. Tutto ciò che sento dentro di me, finché ho ancora la lucidità per concepire un pensiero, mi porta a pensare che non ci sia nulla di finto, piuttosto l’evento cittadino è stato un pretesto per celare qualcosa di terribile.

Mi faccio piccolo, ma con un ultimo impeto di orgoglio e di desiderio di protezione, mi getto sulle scale per andare da mia figlia e verificare che non le sia stato ancora fatto alcun male.

«Cloe! Cloe, dove sei?»

L’ultima immagine che compare di fronte hai miei occhi, è quella di mia figlia vestita con un grembiule da cuoca, lo sguardo perso nel vuoto, mentre la donna accanto a lei le cinge le spalle con amorevole affetto.

«Non è bellissima?»

La padrona di casa si lascia andare ad una risata grassa e che potrebbe risultare contagiosa, qualora non si tema per la propria vita e per quella della persona più importante al mondo.

«Cosa sta facendo a mia figlia?»

Il marito arriva alle mie spalle: «Caro mio, abbiamo semplicemente riconquistato la libertà. Ora sta a voi cercare qualcuno che vi sostituisca. Addio, miei cari!»

Trascorre un anno, in cui Cloe e suo padre sono completamente scomparsi nel nulla.

Una coppia di ragazzi partecipa a Ruginelloween 2022. Hanno in mano la mappa dell’evento, ma non si rendono conto che l’ultimo punto in elenco è presente solo sulla loro piantina. Si tratta di un luogo di ristoro, Il Mago del panino, situato lontano dalle maggior parte delle attrazioni ma su una strada di forte passaggio.

Decidono di raggiungerlo per cenare, per evitare le code degli altri esercizi commerciali.

Nel frattempo, all’interno di una villa buia e silenziosa, un padre ed una figlia li stanno aspettando.

Per dodici lunghi mesi hanno accolto clienti nella loro taverna. Hanno servito loro birra a fiumi e polletti al forno, o quantomeno così hanno raccontato loro quando gli avventori affamati hanno chiesto cosa fosse quella carne saporita. Quando gli ospiti erano sufficientemente ebbri, venivano portati al piano di sotto, nella cantina sotto la taverna, dove venivano legati ad un tavolo e venivano loro asportate piccolissime porzioni di corpo di cui, il giorno seguente, nemmeno si rendevano conto.

Lo scopo ultimo di quell’attività è molto semplice: arrivare al giorno di Halloween e preparare i panini più buoni mai assaggiati da essere umano, utilizzando un ingrediente segreto che altro non è che quanto ottenuto da quelle cene conviviali. Solo così la magia sarebbe passata da loro ad una nuova coppia, solo così sarebbero stati di nuovo liberi di tornare alla loro vecchia esistenza. Hanno solo un’occasione all’anno, altri prima di loro hanno tentato e ritentato per quasi un secolo, prima di avere salva la vita. Loro ambiscono a riuscirci alla prima occasione, grazie all’esperienza del cinema e della psicologia moderna che rendono il padre perfettamente conscio di ciò che contribuirà a creare l’atmosfera perfetta, e la figlia a mostrarsi come un’adorabile piccola cuoca da cui non c’era nulla da temere.

Il citofonò suona, timidamente. Sono i loro ospiti, la loro occasione per fuggire. Non possono sbagliare.

Si va in scena!

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Racconti brevi

Squitty Sesamo

È la sesta vigilia di Natale per Gabry e Miki. Hanno entrambi cinque anni, anche se i loro compleanni sono separati da quattro mesi.

Stanno trascorrendo insieme le festività, perché la famiglia si è riunita a casa dei genitori di Miki in un paese delle Prealpi Lombarde per vivere un po’ più intensamente l’atmosfera magica del Natale.

I bambini sono eccitatissimi al pensiero dei regali che riceveranno la mattina successiva. Per questo motivo faticano a prendere sonno.

«Miki, cosa hai chiesto a Babbo Natale?»

Il piccolo padrone di casa è più vicino a cedere al sonno, perciò sbadiglia apertamente prima di rispondere: «Un trattore telecomandato. E tu?»

«Un drone!»

Miki commenta con gli occhi già chiusi: «Che cos’è un drone?»

«È una specie di elicottero, ma con la telecamera. Così posso mandarlo in giro per le strade e vedere cosa fanno le persone, e scoprire se qualche grande sta facendo il cattivo. Forte, vero?»

Gabry non riceve nessuna risposta, perché il respiro di suo cugino è quello profondo tipico di chi sta già dormendo.

L’unico bambino rimasto sveglio nella stanza si preoccupa. È infatti fin troppo eccitato per l’arrivo dei regali, inoltre dormire in un letto non suo lo ha sempre messo in difficoltà, perciò fatica a prendere sonno: e se per colpa sua Babbo Natale decidesse di saltare quella casa? Come spiegherebbe a suo cugino ed a tutta la famiglia che è sua la responsabilità del triste vuoto sotto l’albero?

Pensa per qualche istante se sia il caso di andare ad avvisare i suoi genitori, ma teme che possa essere già troppo tardi. Alzarsi in quel momento potrebbe avere conseguenze terribili per il Natale di tutti.

Mentre queste preoccupazioni lo tormentano, un flebile rumore di passi giunge da un piccolo buco dietro ad un armadio, di cui nessun essere umano si è mai reso conto. D’altronde, quel mobile non viene spostato da circa cinquant’anni.

L’anta dell’armadio si apre leggermente dall’interno, richiudendosi senza cigolii un attimo più tardi.

Una vocina delicata e leggermente nasale fa sobbalzare il bambino più agitato della Lombardia: «Ehi, tu: come ti chiami?»

Gabry si volta verso l’origine di quelle parole, anche se il buio gli impedisce di scorgerne la fonte.

Si sforza di chiedere: «Chi sei?»

È spaventato, perché chiaramente non si tratta di nessuno tra gli adulti che in quel momento sono nelle altre stanze della casa. Nessuno gli chiederebbe il suo nome, né parlerebbe con quella assurda voce.

Un topolino si avvicina alla luce di cortesia, posta sul comodino di Miki che continua a dormire. Il timbro del nuovo arrivato si fa un po’ più nasale a causa dell’agitazione.

«Non si risponde ad una domanda diretta con un’altra domanda! I tuoi genitori non ti hanno insegnato l’educazione?»

Gabry scoppia in una risata, anche se trattenuta per non svegliare nessuno, e soprattutto per non allarmare Babbo Natale qualora fosse in arrivo.

«Mi chiamo Gabriele. Ma tu chi sei?»

Il topino annuisce soddisfatto: «Così va meglio. Io mi chiamo Squitty. Squitty Sesamo, per la precisione, perché in effetti è un nome fin troppo comune. Pensa che ho venticinque fratelli che si chiamano come me.»

Il bambino pensa per un istante al fatto che non ha mai sentito nessuno chiamarsi così, né si ricorda di libri sui topi letti dalla sua mamma che riportino quel nome. Molto strano.

Il nuovo arrivato mostra una certa fretta: «Forza, alzati e mettiti addosso una felpa e delle calze antiscivolo, dobbiamo andare.»

Il tono imperativo mette Gabry a disagio. È ora di svegliare suo cugino perché venga a conoscenza di ciò che sta avvenendo nella sua stanza.

«Miki! Ehi, Miki, guarda chi è venuto a trovarci!»

Squitty Sesamo cammina distrattamente verso Gabry, finendo per calpestare con i suoi piedini proprio il cuginetto.

«Chi sarebbe questo Miki?»

L’unico bambino sveglio risponde ridendo: «Ma è sotto di te, gli stai camminando sopra!»

«Per mille semi di sesamo! Giuro che non me n’ero accorto. Sì, può esserci utile anche lui. Più siamo e meglio è. Ehi, giovane, sveglia! È ora di andare. Giovane? Senti un po’, come hai detto che si chiama?»

« Miki, Michelangelo è il suo nome per intero.»

«Se avesse già i baffetti glieli tirerei, ma come devo fare? Ho capito: gli farò un bel solletico sotto al collo.»

Le manine di Squitty Sesamo accarezzano rapide il collo di Miki per provocargli il solletico.

Il bambino dapprima si agita leggermente, quindi si gira scocciato sul fianco opposto rispetto al cugino.

«Dai, Gabry, lasciami dormire!»

« Miki, non sono io! Guarda chi è stato a farti il solletico!»

Il piccolo padrone di casa viene risvegliato da quelle parole senza senso: cosa mai dovrebbe essere, se non un dispetto di suo cugino?

Aprendo gli occhi, scorge il topolino caduto di fianco a lui per colpa del suo rapido movimento a dare le spalle a Gabry.

Sta per urlare per lo spavento, ma Squitty Sesamo è rapido nel mettergli le manine sulle labbra per zittirlo.

«Ehi, non vorrai svegliare tutti. È pur sempre la vigilia di Natale.»

La voce assonnata di Miki contiene anche qualche segno della sua paura dovuta alla sorpresa: «Ma tu chi sei?»

«Giusto, che maleducato, grazie a tuo cugino io conosco già il tuo nome ma non mi sono ancora presentato: sono Squitty Sesamo, ed ho un urgente bisogno di entrambi. Forza, mettetevi addosso qualcosa e venite con me.»

Mentre il topolino si avvia con passo deciso verso l’armadio, Miki implora Gabry per una spiegazione: «Dove stiamo andando?»

Il cuginetto allarga le braccia, mentre si alza dal letto: «Non lo so! È arrivato poco fa, ma è molto agitato e ha bisogno del nostro aiuto.»

Miki cerca di prendere in mano la situazione come farebbero i suoi genitori: «Scusa, Squitty, ci potresti dire dove stiamo andando?»

Il topolino si volta infastidito: «Ho detto Squitty Sesamo. Se dovessimo incontrare qualcuno dei miei fratelli, chiamandomi solo Squitty ci volteremmo tutti, sarebbe davvero imbarazzante. Comunque ho bisogno del vostro aiuto perché ho commesso un grosso pasticcio nel mio paese, ma vi prometto che sarete di ritorno prima che arrivi Babbo Natale, sempre che vi siate meritati qualche regalo.»

I due bambini non sono ancora convinti di volerlo seguire, ma quella situazione ha qualcosa di decisamente magico. Vogliono scoprire cosa si nasconda dietro all’agitazione del nuovo arrivato.

Indossano felpe e calze antiscivolo, aiutandosi a vicenda per la mancanza dei genitori. Impiegano più tempo di quanto Squitty Sesamo si sarebbe aspettato, perciò il topino inizia a battere nervosamente il piede sul pavimento.

Quando finalmente è tutto pronto, i tre si avvicinano all’anta dell’armadio. Squitty Sesamo entra per primo, infilandosi fra i vestiti per raggiungere un piccolo foro sul retro del mobile. Scompare subito nel buio, per fare ritorno qualche istante più tardi.

«Beh, cosa state aspettando?»

Gabry risponde per primo: «Come facciamo ad entrare lì dentro? È troppo piccolo!»

Miki gli fa eco: «Già, ed è anche troppo buio.»

«Avete ragione, i vostro occhi non sono abituati all’oscurità. Prendete quella lucina notturna.»

Giusto, la luce notturna senza fili. Come avevano potuto non pensarci prima? Sperano solo che non si scarichi nel momento sbagliato, ma di solito dura tutta la notte.

Il topolino riprende, dopo che Gabry è tornato verso l’armadio con la luce in mano: «Per quanto riguarda le dimensioni, non vi preoccupate: se vi dirigerete verso il corridoio in cui entrerò con fiducia e coraggio, vi ritroverete alti come me senza nemmeno accorgervene. È una promessa di topo.»

I due bambini si ritrovano come per magia nel corridoio, camminando dietro a Squitty Sesamo. Come aveva detto il topolino, ora sono alti esattamente come lui.

Gabry ride, osservando il suo corpo e quello del cugino così diversi rispetto a come li ricordava fino ad un secondo prima.

Miki invece è più preoccupato da quello che li attende: di fronte a loro, infatti, non si vede assolutamente nulla. Non sa davvero cosa aspettarsi dai prossimi passi nell’oscurità.

Squitty Sesamo li incita affinché aumentino l’andatura: «Forza bambini, non abbiamo tempo da perdere. Seguitemi, non abbiate paura!»

Nonostante le parole della loro guida, i due cuginetti di paura ne hanno eccome!

Con loro grande sorpresa e sollievo, girato un angolo nel buio corridoio, iniziano ad intravedere una luce in lontananza.
«Eccoci, siamo quasi arrivati al mio villaggio.»

L’entusiasmo di Squitty Sesamo è tale che aumenta ancora la velocità delle sue zampe da topo, lasciando indietro i suoi compagni di avventura.

Dopo qualche passo si volta, sorpreso di non trovarli dietro di sé: «Ehi, dove siete finiti?»

Gabri è il primo a rispondere, cercando di far uscire le parole nel bel mezzo del fiatone: «Arriviamo, ma siamo solo dei bambini, devi andare più piano!»

«Già,» aggiunge Miki, «perché non hai scelto di portare con te degli adulti? Loro sì che non ti avrebbero fatto perdere tempo.»

Squitty Sesamo risponde con gli occhioni spalancati: «Starai scherzando, spero: gli uomini adulti mi avrebbero cacciato a pedate non appena mi fossi fatto vedere da loro nel bel mezzo di casa vostra!»

I cuginetti si trovarono d’accordo con il topolino. I grandi non sono proprio in grado di cogliere la magia in un animale che parla, avrebbero visto solo un essere pericoloso e sporco, insomma da eliminare al più presto.

Immersi in queste riflessioni sulla differenza tra bambini e persone più grandi, i tre giungono fino al villaggio.

I nuovi arrivati restano a bocca aperta: quello che si trovano di fronte è un vero e proprio paese, costruito con pezzi di tronchi ed altri oggetti recuperati dalle case degli uomini. Ci sono abitazioni, negozi, parchi dove le mamme portano a spasso i topolini, campi sportivi, e persino un piccolo fiumiciattolo che scorre di fianco alla strada principale. Al posto del soffitto del corridoio, sopra le loro teste c’è ora un altissimo tetto in plastica trasparente, così che la luce del sole possa entrare come se si trovassero all’aria aperta, con la differenza che là sotto gli abitanti sono al riparo dai predatori.

«Wow!», esclama Miki.

Quella cittadina costruita con pezzi recuperati un po’ dove capita ricorda tanto ai due bambini le costruzioni con cui si divertono quando si trovano nei parchi giochi comunali, oppure nei boschi delle Prealpi Lombarde.

«Beh, in effetti devo ammettere che siamo stati proprio bravi.»

Squitty Sesamo non può evitare di vantarsi per l’impegno e la fantasia dei suoi concittadini.
«Ora però ho bisogno che mi seguiate nella biblioteca del villaggio.»

Gabri non riesce a distogliere lo sguardo da tutte le curiosità che trova intorno a sé. Sembra davvero di ritrovarsi in un paese costruito dagli esseri umani, solo che gli abitanti sono tutti topi.

La cosa più buffa è che questi ultimi non hanno bisogno di vestiti, quindi se ne vanno in giro con la pelliccia al vento, senza provare imbarazzo.

Miki, invece, è decisamente interessato a quello che gli riserverà ancora la loro straordinaria avventura. Non sa infatti cosa aspettarsi dalla biblioteca. Spera proprio che Squitty Sesamo si renda conto di come i bambini della loro età non siano ancora in grado di leggere.

In effetti, però, intorno a loro vedono solo cartelli pieni di disegni, nulla che ricordi una scrittura. Che strani libri troveranno in biblioteca? Forse pagine e pagine di disegni? Con quelli sì che i due cuginetti potrebbero dare una mano alla loro guida.

Una volta entrati in un luminoso edificio costruito tutto a vetri, restano di nuovo sorpresi: nel centro dell’unica grande sala c’è un computer, da cui escono decine di cavi collegati a tante postazioni da cui alcuni topi stanno consultando diverse informazioni. Ci sono topi studenti che si preparano per un’interrogazione, topi architetti che scelgono come costruire un nuovo edificio per la città, una nonna che cerca una ricetta per deliziare i nipotini, e per tutti costoro le informazioni hanno una forma diversa da quella dei libri degli uomini: come immaginava Miki, si tratta sempre e solo di immagini.

Gabri pronuncia la domanda più ovvia: «Che strana biblioteca, non avete libri di carta?»

Squitty Sesamo risponde con un sorriso: «Certo che no, non abbiamo la vostra abilità nello scrivere, e non avremmo la possibilità di sfogliare con le nostre zampe decine e decine di pagine. Questo computer, però, contiene tutta la conoscenza di cui abbiamo bisogno. Inoltre, può essere facilmente aggiornato da chiunque faccia delle nuove scoperte.»

Anche in questo caso, i due cuginetti non possono fare altro che trovarsi d’accordo con lui.

«Ora però veniamo al motivo per cui vi ho portati fino a qui.»

La loro guida preme sul touch screen con gesti sicuri, fino a richiamare un disegno molto particolare. Si tratta di un bastone con in cima un ricciolo dorato, tenuto in mano da un topo che sembra molto importante.

«Questo è il conte della Terra sotto la Cupola, Squeo Baffo. Regge lo Scettro del Potere, il simbolo del nostro territorio. Non si tratta solo di un bastone: è un oggetto magico!»

I cuginetti lo squadrano con incredulità.

«Non vi fidate ancora di me, dopo avervi trasformati in esserini piccoli come me ed avermi sentito parlare?»

Miki decide di dargli un’occasione, mentre Gabry rimane piuttosto scettico.

«Questo è l’oggetto che ci rende topi speciali. Senza di esso, torneremmo ad essere roditori qualsiasi: scaveremmo tane, rovisteremmo nelle vostre pattumiere, non sapremmo parlare né comportarci come voi.»

Squitty Sesamo fa scorrere alcune immagini, per lui dotate di grande significato ma incomprensibili per i due bambini. Per fortuna, decide di proseguire nel racconto.

«La leggenda narra di un topo coraggioso, di nome Squattilus, che tanto tempo fa attraversò mari e monti per raggiungere la Foresta dei Mille Serpenti. Laggiù affrontò giorni e giorni di sfide terribili, tanto che arrivò alla fine del suo percorso con la certezza che non avrebbe mai avuto la forza per tornare a casa. Il suo obiettivo era quello di recuperare un tesoro prodigioso, che avrebbe regalato al suo popolo la saggezza degli uomini. Con le ultime energie, Squattilus arrivò al centro della foresta e, dopo avere trascorso un tempo lunghissimo a combattere, dovette per la prima ed unica volta risolvere un indovinello, che nessuno ha portato fuori dalla Foresta. Ha risposto con saggezza, ha conquistato lo Scettro e soprattutto la fiducia e l’ammirazione del più forte e saggio fra tutti i serpenti, Quet… Ques… Aspettate: Quetzalcōātl!»

I due bambini arricciano il naso di fronte a quel nome impronunciabile che il topo sembra aver letto nel disegno sullo schermo di fronte a lui, nonostante sia privo di scritte.

Squitty Sesamo prosegue: «Il serpente alato lo fece salire sul suo dorso e lo riportò a casa, sfinito ma felice per il risultato della sua avventura. Da allora, il nostro popolo ha acquisito la saggezza di vuoi uomini, unita alla capacità dei topi di usare i sensi. Da queste doti combinate, è nata la nostra magia, anche se nessuno di noi è in grado di compiere qualcosa di più serio rispetto a qualche trucchetto per stupire i cuccioli, o per rimpicciolire due bambini fino all’altezza di un topo.»

Miki e Gabry sorridono compiaciuti dopo essere stati citati nell’esempio.

Il racconto di come lo Scettro sia giunto nelle mani di quel popolo è finito, perciò Gabry freme dal desiderio di scoprire quale sarà la loro missione: «Perché ci hai portati qui?»

Una voce risuona nelle teste dei due cugini: «Gabry, Miki, dove vi siete nascosti? Babbo Natale non ama i bambini che stanno svegli per spiarlo. Forza, venite fuori e tornate subito a dormire.»

I cuccioli d’uomo spalancano la bocca per la sorpresa e la delusione.

Miki è il primo a commentare: «Mamma, no, proprio adesso! Dobbiamo ritornare alla stanza.»

Squitty Sesamo sorride, tranquillizzandoli: «Non vi preoccupate, ora conoscete il nostro mondo. Tornerò presto per riportarvi da noi, ed iniziare la nostra avventura.»

Gabry è preoccupato per la loro guida: «Ma come, avevi tanta fretta di farci venire qui!»

«Lo so, ma non si può far preoccupare una mamma. Vedrete, me la caverò, nel frattempo vi riporto indietro con la magia. A presto, piccoli amici miei!»

«A presto, Squitty Sesamo!», rispondono all’unisono i bambini, mentre una folata di vento li conduce in un batter d’occhio nell’armadio, dove riprendono la loro altezza naturale.

Escono quatti quatti, ma non possono evitare che la mamma di Miki li scopra.

«Due monelli, cosa ci facevate lì dentro?»

I cuginetti non sanno cosa rispondere, perciò tornano silenziosamente sotto le rispettive coperte. Qualche coccola più tardi, scivolano in un sonno sereno e piacevolmente ricco di sogni su di un mondo fantastico, popolato da topi dall’aspetto e l’intelligenza simili a quelli degli esseri umani.

Il mattino seguente, festeggeranno il Natale senza ricordare nulla di quanto è loro accaduto quella notte, ma quando l’avventura tornerà a chiamarli, Squitty Sesamo e la Terra sotto la Cupola saranno di nuovo familiari come se i due bambini non avessero mai abbandonato quel luogo magico.

A presto, piccoli amici!