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Racconti brevi

Stress

Un uomo cerca di sopravvivere allo stress da ufficio.

Francesco percepiva che la bomba ad orologeria del suo stato di stress ticchettava con un’intensità sempre più difficile da ignorare.

Sentiva le orecchie fischiare costantemente. Era seduto in ufficio, cercando disperatamente di concentrarsi sulle sue scadenze più urgenti.

Appena fuori dalla sua porta, un gregge di pecore pascolava ininterrottamente ormai da due ore. C’era chi si spostava furiosamente tra uffici, bagni, area fumatori e zona break, giusto per dare l’idea di essere sommerso dal lavoro. C’era ci preferiva belare fastidiosamente, inscenando riunioni in presenza o al telefono nel corridoio: persone ottenebrate dalla malsana idea che risparmiare al collega di scrivania il supplizio della loro voce, per poi tediare con la stessa cacofonia un intero blocco di uffici, fosse in effetti una scelta responsabile. C’erano infine i cani da pastore che di tanto in tanto iniziavano a ringhiare ed a latrare al telefono dopo aver ingurgitato una sigaretta, sbattendo la porta del loro ufficio che aveva l’ingrato e fallimentare compito di provare a contenerne la voce, volutamente mantenuta su volumi altissimi.

Nulla di strano, normale vita da impiegati.

Il problema per Francesco era che il suo stato emotivo gli impediva di ignorare qualsiasi stimolo ricevessero le sue orecchie, dal più fastidioso a quello più innocuo.

Quando sentì una fragorosa risata scoppiare a pochi passi dal suo cranio prossimo alla deflagrazione, non resse oltre ed andò a richiamare i colleghi. Si trattava di un gesto per lui inusuale: aveva sempre evitato di scontrarsi con altre persone nelle sue esperienze lavorative, quale che fosse il motivo del disaccordo. Aveva infatti colto maggiori risultati affrontando ogni situazione con il dialogo, accompagnato da una generosa porzione di sorrisi.

Il tempo per affrontare i problemi con positività era tuttavia giunto al termine, perciò si intromise nella piacevole conversazione che stava avendo luogo a tre metri dalla targhetta con il suo nome, chiedendo a quei perplessi esseri umani con il residuo di cortesia che gli restava di trasferire il momento di goliardia di fronte alle macchinette del caffè. La proposta venne accolta con un imbarazzato crollo dell’umore generale, che tuttavia riprese pochi istanti dopo nella convinzione che il sorprendentemente frustrato responsabile di ingegneria e manutenzioni non sentisse le risatine di scherno.

Francesco ebbe la tentazione di emulare i teatrali colleghi con una violenta chiusura della porta, tuttavia comprese presto che quell’asse di legno era un’incolpevole ed in fondo utile barriera tra lui ed il mondo esterno. Aveva pertanto tutto l’interesse a mantenerla in piena forma.

Tornato al pc, si concesse un sottofondo di musica d’atmosfera per provare a concentrarsi. Il tentativo si dimostrò efficace, tanto che poté lavorare senza altre distrazioni per quasi un’ora, finché una forma di gorgonzola qualificatasi come uno stagista del team IT si materializzò all’ingresso della sua zona di quiete.

Era rotolato fin lì per segnalargli che, da un controllo sul consumo della rete aziendale, ne risultava un eccessivo utilizzo da parte sua, peraltro su siti non autorizzati dall’azienda. Francesco mostrò allo sventurato figlio dell’acne (ma non certo del deodorante) qual era la ragione di quella anomalia, ossia la riproduzione della nenia in sottofondo, facendo al contempo notare come lui stesso non avesse notato alcun rallentamento nelle attività che necessitavano della rete. Le scaglie di muffa gli risposero che loro non avevano colpa, era stato l’IT manager ha mandarle in missione insieme al corpo dello stagista che le ospitava. Il responsabile di ingegneria e manutenzioni capì che uno di quei giorni avrebbe dovuto offrire un paio di caffè al pari ruolo degli informatici, che sembrava averlo preso in antipatia per qualche ignota ragione. Liquidò pertanto il suo stagista e si costrinse a togliere il sottofondo, venendo istantaneamente proiettato nell’ambiente dell’ufficio.

Poco per volta, erano tuttavia arrivate le quattro del pomeriggio, e con esse l’uscita dal lavoro dei primi colleghi, nonché il ritiro dei superstiti nei rispettivi loculi per smaltire le email accumulate ed informarsi sui contenuti social del giorno. Francesco ebbe pertanto la possibilità di portare a compimento le incombenze più urgenti, prima di uscire dal suo sconfortevole antro per fare rientro a casa.

La calma ritrovata in quelle ultime proficue due ore di lavoro o poco più, venne sovrastata dal traffico in cui si ritrovò non appena giunse al primo incrocio. Le imprecazioni contro gli automobilisti che riteneva particolarmente meritevoli di censura per le loro scarse doti alla guida lo fecero sentire un po’ più in pace con il suo io interiore.

Questo fino a quando, giunto ad un semaforo particolarmente denso di quelle forme di umanità conservate in barattoli di metallo, sfortunatamente inveì nei confronti di un grosso esemplare di orso bruno. Quest’ultimo era così corpulento che faticò ad uscire dalla sua lattina. Francesco si vide costretto ad abbassare il suo finestrino, affinché la creatura non lo sfondasse. Cercò di mettere da parte l’orgoglio per avere salvi i connotati, scusandosi profusamente per il suo comportamento inopportuno, dovuto certamente ad una giornata storta. L’orso in tutta risposta accennò ad un budspenceriano manrovescio. Francesco si ritrasse puerilmente, provocando un ringhio di soddisfazione nell’inquietante essere che oscurava la pallida luce dei lampioni. Insultando la sua scarsa virilità, l’orso riportò la sua imponente massa verso la scatola di latta da cui era uscito.

Francesco si costrinse a darsi una calmata. Posizionò la radio su di una stazione jazz, sperando che questo lo aiutasse. Si imbatté tuttavia in un raro momento in cui le parole del commentatore americano superavano di gran lunga le note, perciò si ritrovò a spegnere la radio e a dover convivere nuovamente con i suoi pensieri.

Arrivò a casa con un desiderio irrefrenabile di infilarsi sotto alle coperte e non uscirne fino all’anno successivo. Non certo per dormire, non sarebbe mai riuscito a prendere sonno. Aveva solamente bisogno di trovare rifugio dal mondo. Incautamente, aprì sovrappensiero la cassetta della posta. Trovò qui una bolletta del gas che avrebbe potuto giustificare solo se sua moglie avesse trascorso gli ultimi due mesi sotto la doccia e con i fornelli accesi. Non era ovviamente possibile, se non altro perché lei non avrebbe mai lasciato le pentole sul fuoco incustodite, mentre per la doccia lui non si sentiva altrettanto sicuro.

All’ingresso in casa, la donna lo accolse con il volto sconvolto dalla stanchezza. Il figlio nato otto mesi prima era piuttosto vivace e poco amante del riposo, almeno per il momento. La madre stava sfruttando fino in fondo la maternità, ma per contro stava consumando quantità notevoli di energie mentali. Aspettava pertanto con ansia il rientro del marito ad ogni sera lavorativa per affidargli il fardello.

Anche quella sera per Francesco si prospettavano poche occasioni di relax, tra quel momento ed il decollo del mattino successivo verso l’ufficio. Si sporse verso la pentola in cui bolliva il condimento della pasta, che alla sua curiosità rispose scaraventandogli sulla guancia una goccia kamikaze ustionante. Davvero poco furbo da parte sua. Rinunciò ad un assaggio anticipato, non era davvero la sua giornata.

Si sedette sul divano, cercando di riprendere fiato. Sentiva che tutto il suo sistema nervoso non aveva la benché minima possibilità di rilassarsi. Se non altro, se fosse rimasto seduto ed avesse spento qualsiasi percezione del mondo che lo circondava, avrebbe evitato di peggiorare ulteriormente il suo stato di stress.

All’improvviso, un dadà emerse dal box in cui stava giocando suo figlio, rompendo la barriera sensoriale tra l’uomo e l’universo. Francesco spalancò gli occhi, ruotando lentamente la testa verso la direzione da cui era giunto l’adorabile suono. Incrociato lo sguardo con il padre, il cucciolo d’uomo ripeté l’invocazione, allungando una mano verso di lui. Non c’era alcun dubbio, il suo piccolo erede lo stava chiamando.

L’uomo sfoderò il primo sorriso della sua giornata, coprendo con un passo a trenta centimetri dal pavimento la distanza che lo separava dal box. Prese in braccio il figlio, portandolo sugli autobloccanti di gomma che rendevano più sicuro il suo gattonare per la sala. Infine, si sdraiò allegramente a terra accanto a lui.

Giocarono insieme fino all’ora di cena. I nervi si erano distesi, il fischio alle orecchie era svanito. Comprese che quella giovanissima vita di cui sua moglie gli aveva fatto dono era l’unica vera medicina per combattere i mali della vita moderna. Un giorno si sarebbe trasformato in un bazooka in grado di generare preoccupazioni aggiuntive ad ogni apertura di bocca, per il momento rappresentava semplicemente il vero senso da dare ai suoi giorni, una ventata di gioia ed orgoglio da cui farsi piacevolmente investire.

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