Non è un sogno. Sto cercando di convincermene, ma non è affatto semplice.
Accanto a me ho mia figlia, che ha compiuto uno sforzo notevole per i suoi sette anni: voleva a tutti i costi accompagnarmi in questa salita verso quella che gli abitanti chiamano tradizionalmente la Vetta degli Unicorni. In mezzo a toponimi concreti come Piana Ghiaiosa, Cima Tempesta o Lago Nuovo, un nome tanto legato al regno della fantasia mi ha sempre affascinato, ma non mi sono mai arrampicato prima fino ai millesettecento metri di questa camminata decisamente agevole ed in effetti poco interessante, perché dall’altopiano che costituisce il corpo della Vetta non si gode di una vista che non sia quella delle più alte cime circostanti. Poiché ho scoperto di poter arrivare in macchina fino al rifugio in cui mi sono fermato a dormire con mia moglie e mia figlia, e che da lì è necessario un cammino di poco più di un’ora per giungere fin dove ci troviamo in questo momento, ho voluto dare soddisfazione alla mia piccola arrampicatrice che da tempo voleva accompagnarmi in un sentiero semplice, e da ancora più a lungo sentiva il bisogno di accertarsi che in quel luogo non giungessero davvero a pascolare i leggendari cavalli alati.
Eppure…
La nostra stupefacente scoperta aveva avuto inizio con un forte getto d’aria ritmato che ci aveva improvvisamente investiti da sopra le nostre teste, poco dopo aver raggiunto l’altopiano. Alzando lo sguardo pressoché all’unisono, avevamo scorto un cavallo dotato di grandi ali mentre scendeva dolcemente dal cielo. Istintivamente indietreggiai trascinando mia figlia con me, ma lei si divincolò, per nulla spaventata dalla prospettiva di incontrare per la prima volta una delle creature che più ammirava fin da quando avevo iniziato a leggerle le prime fiabe.
Il cavallo diede alcuni poderosi colpi d’ala per rendere più lieve il suo atterraggio, appoggiando infine i quattro zoccoli con estrema delicatezza al suolo. La leggiadria di un animale così maestoso e forte mi lasciò senza parole, tanto che senza accorgermene caddi a sedere nel prato, a bocca spalancata.
Questo è il quadro che anche un modesto pittore potrebbe rendere efficacemente, se potesse osservare di nascosto la scena pressoché statica che l’altopiano sta ospitando da circa cinque minuti: l’unicorno ha un crine così bianco da costringere a distogliere lo sguardo, quando viene accarezzato dai raggi del sole, ed ha una folta criniera dorata e bocca e zoccoli color caffè a dare vivacità alla sua figura, mentre bruca serenamente l’erba di fronte a noi; mia figlia è in contemplazione estatica, destandosi per saltellare sul posto ad ogni sbuffo da parte della creatura e ad ogni sguardo con la coda dell’occhio che questa rivolge nei suoi confronti; io, padre perfettamente incapace di frapporre allo stupore che mi ha inchiodato al terreno il mio dovere di proteggere la mia piccola donna da un’eventuale minaccia, cerco disperatamente di dare un senso a ciò che sto vedendo.
La domanda che raggiunge la parte cosciente della mia mente è molto semplice: com’è possibile che nessuno abbia mai visto un unicorno? E’ stato addirittura dato il nome di questi cavalli alati alla vetta su cui ci troviamo, evidentemente qualcuno in passato deve averli visti prima di noi, anche se non è stato creduto. E’ tuttavia poco probabile che, un avvistamento dopo l’altro, nessuno dei narratori sia stato giudicato affidabile, oppure che a nessuno sia venuto in mente di fotografare quei meravigliosi animali con un telefono.
All’improvviso, realizzo che anch’io sto perdendo l’occasione di testimoniare quello spettacolo della natura, anche se dentro di me so benissimo che nutrirò forti scrupoli prima di condividere quelle immagini con qualcuno. Mi sento però in dovere di spiegare a mia moglie ciò a cui il resto del nucleo familiare ha assistito. Quando tuttavia inquadro l’unicorno, sullo schermo compaiono delle interferenze via via più forti che mi impediscono di registrare alcunché. Abbassando il telefono, mi accorgo che la creatura mi sta osservando, e mia figlia sta seguendo il suo sguardo.
«Papà, lui non vuole che lo riprendi! Lascialo in pace!»
Non è certo questo ciò che mi preoccupa. Fino ad un attimo prima, pur trattandosi di un essere solitamente associato al mondo delle fiabe, ho considerato quella meravigliosa creatura come un bizzarro ed arcaico incrocio fra un volatile di chissà quali ere ed un cavallo moderno. Ora mi ha invece dimostrato di possedere doti riproducibili dagli esseri umani soltanto con l’uso della tecnologia. Non riesco davvero a mettere ordine tra i miei pensieri, che si mescolano tra di loro come un mazzo di carte in mano ad un esperto croupier.
Mentre cerco di alzarmi più lentamente possibile, mia figlia non riesce a resistere all’eccitazione. Si avvicina all’unicorno, intenzionata ad accarezzarne il muso. Sto per intervenire, intimandole di fermarsi, ma la creatura si avvicina a lei, piegando le zampe anteriori ed abbassando la testa fino a quando le loro fronti si sfiorano. Chiudono dolcemente gli occhi, mentre mia figlia lo abbraccia e sorride, come se stesse sentendo un piacevole solletico.
All’improvviso, un nitrito infantile e tutt’altro che aggraziato rompe il silenzio dell’altopiano. L’unicorno si libera delicatamente dal contatto con le mani di mia figlia per correre verso una piccola collina dall’erba insolitamente alta per quella quota. Lo raggiungiamo, scoprendo che un puledrino con un corno appena accennato deve essersi tagliato una zampa con un ramo particolarmente secco ed appuntito. Sanguina, e la madre che compare inspiegabilmente dal prato alle sue spalle ha tutta l’aria di essere preoccupata. Il nostro amico, che con ogni probabilità è il padre, cerca di confortare il cucciolo che tuttavia non smette di lamentarsi.
Mi viene a quel punto in mente di aver visto quanto necessario per aiutare le creature. Faccio loro segno con una mano sul cuore che vorrei provvedere io a curare la ferita, sperando che mi capiscano. Mia figlia insiste per restare con loro, preoccupata, tuttavia riesco a convincerla a venire con me per aiutarmi. Accetta solo dopo aver accarezzato il puledro, ancora sofferente nonostante non si tratti di un taglio evidentemente profondo.
Torniamo poco più a valle, dove riempiamo la mia borraccia con dell’acqua di un ruscello, ma soprattutto recuperiamo qualche taglio di Erba della Madonna, una pianta che aveva attirato la mia attenzione durante la salita perché è piuttosto insolito trovarla a queste altitudini.
Raggiungiamo rapidamente l’altopiano, sperando di non scoprire che nel frattempo il metabolismo diverso dell’unicorno possa aver giocato qualche brutto scherzo. Oppure, e non me ne stupirei, che si sia trattato solo di un sogno.
No, non è stato un sogno. La piccola famiglia è ancora nascosta nell’erba, mimetizzandosi in modo così inspiegabilmente efficace da scomparire completamente alla nostra vista finché non raggiungiamo esattamente il punto in cui ricordiamo di averli lasciati. Lo sguardo dei due genitori è diffidente, ma mia figlia riesce con poche parole a tranquillizzarli. Inizio a pensare che l’unico motivo per cui pochissime persone abbiano visto in passato queste creature, sia dovuto alla necessaria presenza di almeno un bambino, fatto decisamente raro per quella quota.
Mentre mia figlia accarezza il puledro per tenerlo tranquillo, con l’acqua della borraccia pulisco il taglio, che fortunatamente non mostra segni evidenti di infezione. Applico l’Erba della Madonna alla ferita, sfruttandone le proprietà disinfettanti e stimolanti per la cicatrizzazione. A questo punto, non resta altro da fare che aspettare.
Dopo circa venti minuti, il cucciolo sembra avere ripreso il buonumore. Inizia infatti a mangiare, e poco per volta si alza e si mette a giocare con mia figlia. I due genitori sembrano sollevati, per quanto possa capire dalle loro espressioni. Ne ho la certezza quando il padre inchina la testa nella mia direzione, prima di muovere ritmicamente e poderosamente le ali per riprendere il volo. Scompare in pochi istanti dalla nostra vista, tuttavia vederlo librarsi nell’aria è stato quasi più emozionante del suo arrivo inatteso.
Il sole inizia poco per volta a calare, costringendoci a lasciare quel luogo magico. Sia mia figlia che il puledro sono tristi, ma era inevitabile che prima o poi quel momento avrebbe dovuto vivere la sua conclusione. Con un velo di tristezza e di commozione, lasciamo l’altopiano. Non facciamo in tempo a voltarci nuovamente verso di loro, che mamma unicorno ed il suo cucciolo sono scomparsi nel prato.
Decidiamo di non raccontare nulla a nessuno, nemmeno a mia moglie che ci aspetta un po’ in pensiero. Non potrebbe mai capire se non vendendo quelle magiche creature con i suoi occhi, e siamo entrambi sicuri che il regalo che ci hanno fatto oggi sia stato un’occasione unica nelle nostre vite, perciò non abbiamo modo di dimostrarle la verità di ciò che ci è accaduto. E’ però certo che il loro ricordo resterà con noi per sempre, sperando sotto sotto di avere aperto a nostra volta una piccola breccia nei loro cuori.